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Storia delle Olimpiadi: l’incredibile vita di Enrico Porro, il discolo di Porta Ticinese che atterrava chiunque

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Con queste credenziali si presentò nel 1908 ai Giochi Olimpici di Londra, dopo che la Regia Marina, a pochi giorni delle gare, gli aveva accordato una licenza straordinaria. Enrico Porro cominciò il suo percorso olimpico con un colpo di fortuna perché passò il primo turno senza combattere; fu meno fortunato, invece, nel secondo, quando gli toccò l’ungherese József Téger con cui si allenava ogni mattina e che dunque conosceva bene la sua tattica. Ne uscì un incontro lunghissimo perché il magiaro non attaccò mai. Alla fine Enrico riuscì comunque a primeggiare, nonostante l’ostilità degli arbitri, “antipatia” che si manifestò anche nei successivi incontri e in generale verso gli atleti italiani impegnati a Londra. Il secondo, lungo incontro (terzo turno) lo disputò contro lo svedese Gustaf Malmström; vinse pure quello e iniziò a guadagnarsi le simpatie del pubblico londinese, che vedeva in quel giovane tanto più piccolo dei suoi avversari il classico Davide in grado di battere ogni Golia che gli si presentava davanti. In semifinale, un altro svedese, Gunnar Persson; il combattimento fu durissimo e infinito, sempre con un arbitraggio avverso. Il nostro lottatore prevalse e nella foga il suo costume andò in brandelli per l’ennesima volta, ma i “mezzi” della Federazione erano ridotti e si ritrovò senza una divisa ufficiale. Fu il finlandese Arvo Lindén a prestargli la sua, permettendogli di scendere in pedana per la finale: il problema fu che ci stava due volte in quegli abiti…

Era il 25 luglio 1908, di fronte ad Enrico Porro c’era il russo Nikolay Orlov, di sette chili più pesante, forte fisicamente e che aveva studiato alla perfezione le sue mosse. Ma, a quel punto, anche la scaramanzia ci mise lo zampino perché nel torneo olimpico londinese come in una “gabola balorda” (ipse dixit), tutti i lottatori con le calze rosse avevano vinto e tutti quelli con le calze verdi avevano perso: ad Enrico avevano maliziosamente dato quelle verdi… Fu una finale interminabile. Secondo il regolamento allora in vigore, si disputavano due riprese di 15 minuti l’una e poi scontro ad oltranza, finché uno dei due non fosse crollato. Alle Olimpiadi si optò invece per un terzo round di 20 minuti, che i giudici pretesero non essendo convinti della superiorità dell’azzurro. Alla fine riuscì a prevalere proprio lui, invece, e la conquista di questo sudatissimo titolo avvenne fra lo giubilo del pubblico locale che ormai parteggiava spudoratamente per l’italiano.

Enrico Porro venne premiato dalla regina Alessandra di Danimarca che ebbe dolci parole d’elogio nel cingergli al collo la medaglia d’oro. Ritornò a La Spezia per assolvere le ultime settimane della lunghissima ferma militare; arrivò in treno accolto da un mare di folla, dall’Ammiraglio Alfredo Lucifero di Aprigliano e dalle musiche tradizionali della Marina italiana. Egli non riusciva a credere che fossero lì tutti per lui, pensava ad una visita del re, e Sua Maestà Vittorio Emanuele III la sera arrivò davvero, per conoscerlo personalmente. Il neo-olimpionico era intento a ballare, sua grande passione, lo prelevarono, gli riassettarono la divisa e lo portarono sulla nave al cospetto del monarca. Questi gli donò una medaglia d’oro “grossa come una michetta” (ipse dixit), lasciandosi scappare, fra una lode e l’altra, risatine compiaciute nel costatare che un uomo di piccola statura come lui medesimo fosse stato capace di una simile impresa. Enrico, che ormai difendeva i colori della Pro Patria di Milano, rivinse il titolo italiano, sempre nella categoria pesi leggeri, nel 1909 e nel 1910; avrebbe dovuto partecipare anche alle Olimpiadi di Stoccolma, ma gli fu impedito da un incidente di lavoro. Poi arrivò la prima guerra mondiale, fra mille difficoltà continuò ad allenarsi e vincere titoli.

Enrico Porro fu un mito ed un maestro nel mondo della lotta, tanto che la Federazione lo forzò a partecipare anche alle Olimpiadi del ’20 ad Anversa e del ’24 a Parigi. Furono due esperienze ai limiti dell’umiliazione perché oltre agli anni, dovette fronteggiare il nuovo e più agile tipo di lotta che aveva sepolto la vecchia tecnica tutta forza e poco movimento. Si ritirò ad insegnare ai giovani, fra i quali godeva di infinita stima e simpatia, anche perché il suo carattere, invecchiando, era diventato molto più socievole e loquace, da tipico “milanesone”. Negli ultimi anni della sua lunga e avventurosa vita fu colpito da atrofia muscolare, grave malattia che gli paralizzò le braccia e gli rese difficile persino l’accudirsi.

Morì all’età di 82 anni, il 14 marzo 1967: al suo funerale c’era tutto il mondo della lotta italiana.

 

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