Basket
NBA: è morto Lenny Wilkens, leggenda in campo e in panchina
Nella notte italiana è stata resa note la morte di Lenny Wilkens. Se ne va a 88 anni uno dei protagonisti di tantissime generazioni della NBA. Già, perché parliamo di un uomo che ha saputo rendersi protagonista sia da giocatore che da allenatore. Non è un caso che la stessa lega professionistica americana lo abbia inserito tra i 75 migliori di sempre (nel 75th Anniversary Team) e, contemporaneamente, tra i 15 maggiori coach della storia. Ed è l’unico ad esserci sia nell’una che nell’altra veste.
Nato a Brooklyn il 28 ottobre 1937, Wilkens ha giocato al college a Providence dal 1957 al 1960, dove realizzò 1193 punti. Scelto con la sesta chiamata al Draft del 1960, giocò in NBA ai St. Louis Hawks nei primi otto anni, dove la franchigia arrivò in un’occasione alle NBA Finals senza però avvicinarsi altre volte all’infuori del 1961. Era sempre lui, nel ruolo di play, uno dei più dotati dell’epoca, a rendersi quasi un prototipo di ciò che si sarebbe visto più avanti, con play capaci anche di andare a rimbalzo oltre che di segnare e distribuire assist.
Passato ai Seattle SuperSonics nel 1968, vi ha trascorso quattro stagioni e, per un periodo, è stato anche coach e giocatore contemporaneamente. Questo pur trovandosi poi a mettersi principalmente in gioco come giocatore, lasciando dunque più in secondo piano il ruolo di allenatore. Ruolo che, però, ha cominciato a ricoprire più spesso in seguito. Dopo due annate ai Cleveland Cavaliers e una ai Portland Trail Blazers, proprio da qui ha iniziato a fare da coach a tempo pieno.
Il tutto prima di tornare a Seattle dal 1977 al 1985, vincendo anche le NBA Finals nel 1979 con una squadra dai tanti realizzatori continui (Gus Williams, Fred Brown, Marvin Webster, Dennis Johnson, John Johnson e Jack Sikma furono tutti oltre la doppia cifra di media sia in regular season che nei playoff). Erano gli anni dei duelli con i Washington Bullets, che oltre a gente come Wes Unseld ed Elvin Hayes avevano in campo un certo Larry Wright, che sarebbe poi giunto a Roma e avrebbe riscritto la storia del basket capitolino.
Nei successivi anni i Sonics non avrebbero più raggiunto quelle altezze. Wilkens tornò poi in un’altra città a lui ben nota: Cleveland, dove rimase per sette anni e avrebbe avuto anche maggior fortuna se non fosse esistita una variabile. Anzi, un uomo: Michael Jordan. Lui e i Chicago Bulls fermarono i Cavs quattro volte in questo arco di tempo, non prima però che la franchigia raggiungesse due volte le 57 vittorie, che al tempo era record. E quel 57 ritornò anche con gli Atlanta Hawks, allenati dal 1993 al 2000 (lustri dopo il trasferimento da St. Louis, in sostanza). Chissà come sarebbero andate le cose senza la trade di Dominique Wilkins per Danny Manning a metà stagione.
Gli ultimi anni furono segnati dai Toronto Raptors, dal 2000 al 2003. E fu soprattutto la prima stagione, con l’approdo ai primi playoff della storia della franchigia, a rivelarsi particolarmente positiva, anche perché la presenza in campo di Vince Carter certo non era uno svantaggio. Ultima esperienza ai New York Knicks, di poco più di un anno e finita nel gennaio 2005.
Wilkens è stato anche GM dei SuperSonics dall’aprile 1985 al maggio 1986, diventando poi vicepresidente del gruppo proprietario della franchigia e quindi President of Basketball Operations nel 2007. Durò poco: decise di dimettersi a luglio lasciando totalmente l’organizzazione. Nel 1996 fu il coach del Team USA delle Olimpiadi di Atlanta che portò a casa la medaglia d’oro: del Dream Team del 1992 erano tornati in 4 e l’ambiente, si narra, era un po’ più teso rispetto a quello di quattro anni prima. Lui, comunque, ebbe modo di farsi rispettare. e a buon conto, dato che alla fine dei conti ha allenato 2487 partite di stagione regolare NBA, dov’è stato Coach of the Year nel 1994.
