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Aerials
Sport Invernali, hanno ancora senso le federazioni nazionali? O va seguita la strada del ciclismo? Il dibattito è aperto
Il recente annuncio dello sciatore norvegese Lucas Braathen, rinominato (o re-brandizzato?) Lucas Pinheiro in virtù del suo ritorno in attività con bandiera brasiliana, rilancia a gran voce un tema di discussione già sussurrato negli anni scorsi. Negli sport invernali, o almeno in alcuni, ha ancora senso una struttura basata sulle federazioni nazionali? Oppure è giunto il momento di effettuare una rivoluzione analoga a quella che il ciclismo intraprese decenni orsono?
L’argomento è di attualità, poiché quello di Braathen è a tutti gli effetti un team privato sostenuto da sponsor di matrice austriaca (Red Bull e Atomic). L’escamotage di tesserarlo per il Brasile fa comodo a tutti. All’atleta, in quanto gli consente di tornare in azione seguendo i propri termini e condizioni; alla Norvegia, che nulla ha fatto per trattenerlo; alla Fis, che aggiunge un intero continente al novero di quelli competitivi per il successo, dinamica peraltro graditissima al Cio.
Insomma, a questo giro vincono tutti e va bene così. Però, alle nostre latitudini, siamo reduci dal controverso “caso” di Lara Colturi. Sicuramente diverso da quello di Pinheiro, perché si parla di un’atleta che non aveva mai gareggiato in Coppa del Mondo e dunque vi entra con una nazionalità diversa a quella originaria, ma comunque affine in termini di creazione di un team privato de facto, formalmente indicato come “Albania” allo scopo di presentarsi al via del massimo circuito.
Sci, il clamoroso ritorno di Lucas Braathen con i colori del Brasile!
La situazione sta interessando anche altre discipline invernali. Per esempio, nel salto con gli sci, l’austriaca Sophie Sorschag – in rotta con la propria federazione – è tornata in azione rappresentando il Kosovo. Anche questo è un artifizio dietro al quale si nasconde un entourage privato.
Nel biathlon, il Belgio si è dedicato alla naturalizzazione selvaggia, mettendo insieme “un’armata Brancaleone” (talvolta efficace) grazie a francesi, italiani, tedeschi e norvegesi acquisiti. Altri Paesi (Corea del Sud, Moldavia, Romania) hanno istituito un’autentica “Legione Straniera” composta da russi finiti ai margini di un movimento sterminato in termini numerici.
Altri casi si possono trovare anche negli sport del ghiaccio, tra pattinaggio di figura e short track, così come nell’ambito del budello (bob e skeleton in particolare). Succede da tempo e succederà ancora, ma ultimamente si nota una proliferazione dei casi di cambi di nazionalità allo scopo di trovare spazi altrimenti preclusi, oppure di gareggiare di fatto da indipendenti.
Alle varie federazioni internazionali tutto questo, alla fine della fiera, fa comodo. Si aggiunge una bandiera (e magari un continente) al novero dei Paesi competitivi, potendo “vendere” le proprie discipline come sempre più popolari e globali. Al pubblico, ma soprattutto al Cio, sempre pronto a tirare un colpo di mannaia su qualche sport, ritenuto non “geograficamente diffuso” e – di conseguenza – non degno dei Giochi olimpici.
Però, così facendo, si rischia di scadere sempre più nell’ipocrisia e nel posticcio, “creando ad arte” movimenti di Paesi esotici pur di aggiungerli alla lista di quelli presenti nel massimo circuito. Chi ne fa le spese può essere l’atleta di medio-alto livello di una superpotenza a beneficio di altri molto meno meritevoli.
Un esempio? Il mediocre fondista Snorri Einarsson, in tutto e per tutto norvegese, ma con la “fortuna” di avere padre islandese. Grazie a questa manna piovuta dal cielo, ha potuto facilmente recitare su palcoscenici che viceversa gli sarebbero stati preclusi e che sono stati proibiti a connazionali più competitivi, senza tuttavia il salvacondotto del passaporto differente.
La dinamica ha poi mille sfaccettature. Oltre agli “oriundi” con parentele più o meno prossime, si hanno “i rinnegati” dalle proprie federazioni nazionali, i veterani di lungo corso alla ricerca di un buen retiro agonistico senza affanni prestazionali e anche degli autentici mercenari dello sport, pronti a vendersi al miglior offerente.
Dunque, torniamo alla domanda posta in apertura. Ha davvero ancora senso perseguire la struttura delle federazioni nazionali, oppure sarebbe più proficuo e deontologicamente cristallino seguire l’esempio del ciclismo? Il dibattito è aperto.
Di certo c’è che la strada percorsa dalle due ruote non è per tutti. Team privati sostenuti da sponsor si possono avere dove c’è mercato, ovvero un ritorno economico. Nessuna azienda investe dove non c’è interesse a farlo. Sarebbero davvero pochi gli sport invernali con questa possibilità. Due o tre praticati su neve e magari uno sul ghiaccio, ma lì ci si fermerebbe. Altrove, la via non sarebbe sostenibile.
Pertanto è verosimile che si vada avanti così, con una geografia sempre più varia grazie a singoli. Schegge impazzite che, fuoriuscite da un sistema per una ragione o per l’altra, si incastonano altrove e proseguono la loro parabola sotto altri colori. Giusto? Sbagliato? Né l’uno né l’altro? Al giudizio di ognuno il verdetto sulla materia, nell’attesa di capire in quale direzione evolverà nel prossimo futuro.