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Andrea Pecchia, basket: “A Cantù siamo stati una Squadra con la S maiuscola. Adoro l’energia di Draymond Green. Teodosic è incredibile”

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Negli scorsi anni è stato tra gli italiani più in vista in Serie A2, e quest’anno, nel massimo campionato, ha trovato spazio a Cantù, sotto l’esperta guida tecnica di Cesare Pancotto. Andrea Pecchia è sicuramente uno dei giocatori che, guardando al futuro del basket azzurro, potrà guadagnarsi più di una chiamata in Nazionale. Per lui, quest’anno, una stagione a 7.7 punti e 4.5 rimbalzi di media in quasi 25 minuti di impiego ad allacciata di scarpe, con tantissima costanza mostrata lungo i mesi in cui si è giocata la Serie A. Lo abbiamo raggiunto per un’intervista, in cui ha spaziato dalla propria stagione alla Nazionale, per arrivare al suo giocatore preferito dall’altra parte dell’oceano.

Come hai vissuto l’interruzione e poi la sospensione del campionato?

“È stato sicuramente un momento difficile, ‘brutto’, perché quando abbiamo saputo della sospensione mi è dispiaciuto molto. Era il momento più bello della stagione, quello dove si decide se si va ai playoff o se invece devi continuare a lottare per salvarti. Eravamo a quattro punti dalla zona retrocessione, ma anche a quattro punti dai playoff. Stavamo lottando, ci guardavamo dietro, però anche in alto. Obiettivamente, però, al di là del dispiacere era la scelta più giusta da prendere. in questo momento”.

Che bilancio ti senti di poter fare della stagione sia a livello di squadra che a livello personale?

“Sono molto contento. Personalmente penso di aver fatto un’ottima stagione, sono uno che alza sempre l’asticella, vuole fare sempre meglio e quindi mi ritengo abbastanza soddisfatto alla prima stagione nella massima serie. Anche a livello di squadra valuto l’annata come più che positiva, perché siamo stati veramente una Squadra, con la S maiuscola, dentro e fuori dal campo. Abbiamo lottato su ogni pallone in ogni partita, abbiamo giocato come una squadra. Abbiamo ottenuto delle vittorie importanti in trasferta e in casa, e diciamo che giornata dopo giornata stavamo crescendo sempre di più”.

Cosa ti ha spinto a scegliere Cantù?

“Tra le varie opzioni che avevo, Cantù rispetto alla piazza è la squadra che mi ha attirato più di tutte perché, oltre alla grande storia che ha a livello italiano ed europeo c’era anche il progetto che mi era stato illustrato dall’allenatore e dal general manager, quindi ho deciso di accettare subito perché mi sembrava la scelta più giusta da fare per provare ad affrontare il primo anno in Serie A. Ovviamente l’ho scelta anche per i tifosi, perché io amo quando c’è un palazzetto molto caldo, infatti gli Eagles non si sono fatti mai mancare, non ci hanno mai lasciati da soli in casa e nemmeno in trasferta. Sicuramente per il progetto e per la fiducia che mi hanno dato l’allenatore e la società, e anche per i tifosi canturini che sono incredibili”.

Com’è stato l’impatto con la Serie A e quali sono le differenze principali che hai trovato rispetto all’A2?

“L’impatto con la Serie A è stato positivo, nel senso che penso di essermi adattato abbastanza bene. Io, ogni volta che salgo di categoria, noto che l’area diventa sempre più piccola, perché i corpi dei giocatori sono sempre più grossi, c’è più atletismo, più fisicità, che va ad aumentare salendo di categoria, come aumenta il numero di stranieri: ce ne sono due in A2 e cinque o sei in A. Quindi, come ho detto prima, è un gioco più diverso, ancora più veloce”.

Sempre a proposito di differenze, quanto cambia interagire con un gruppo a trazione italiana come quelli che ci sono in A2 e con un gruppo in cui c’è un’ampia componente straniera, nel caso di Cantù americana?

Non cambia assolutamente niente, perché loro sono delle persone normali. L’unica differenza è che parlano una lingua diversa, però c’è stato da subito un bellissimo feeling, anzi molti dei miei compagni erano rookie, anche loro al primo anno in Serie A, e si sono trovati subito bene con tutti quanti tra italiani e americani. L’obiettivo di entrambi, nostro e degli americani, è di vincere, quindi si andava in palestra ogni giorno per provare a migliorarci e farci trovare pronti la domenica. Ho notato poche differenze, perché comunque anche in A2 c’erano i due americani, qui sono cinque-sei, però mi sono trovato comunque molto bene”.

16 dicembre 2018, Treviglio-Latina 102-84: 25 punti, 13 rimbalzi, 9 assist, 5 palle recuperate, 9 falli subiti, 56 di valutazione. Che ricordo hai di quel pomeriggio?

“Diciamo che quella è stata una delle mie migliori partite. È stata un’emozione incredibile, perché non mi ero ancora reso conto di quello che avevo fatto finché non sono andato in panchina. C’era Raffaele Monastero, che è il nostro socio che è sempre in panchina, che mi ha detto: ‘Guarda che hai fatto 56 di valutazione’. Me l’hanno detto lui e anche Stefano Lamera. Io: ‘Oh cavolo! Così poco?’ (ride). Comunque il ricordo di quella partita mi rimarrà per sempre”.

Quanto è stato importante per te il progressivo aumento delle responsabilità a Treviglio per la tua crescita personale?

“È stato fondamentale, perché io sono un giocatore che ha bisogno di fiducia da parte dell’allenatore, e quindi quello che è successo a Treviglio, con Vertemati che mi ha dato sempre più fiducia anno dopo anno. E averla implica anche più responsabilità, quindi ne ho avute molte di più e secondo me per un giocatore avere fiducia e delle responsabilità è qualcosa di fondamentale. Mi sentivo importante, a mio agio, riuscivo a giocare al meglio delle possibilità. Ed è successo anche quest’anno a Cantù, dove ho ricevuto la fiducia di tutti, e alla fine per un giovane italiano la fiducia dell’allenatore e anche dei compagni è fondamentale”.

Nel tuo passato non hai solo il ruolo di capitano della Blu Basket, ma anche quello di capitano della Nazionale a livello giovanile con l’Under 17. Cos’hai provato nell’esserlo?

“Sono stato capitano della Nazionale Under 17 quando siamo andati a fare i Mondiali a Dubai nel 2014. Anche lì c’è stato quel giorno in cui è venuto l’allenatore, che era Andrea Capobianco, e mi ha detto che sarei stato il capitano della Nazionale. Lì per lì mi son detto ‘mamma mia’, è stata una cosa incredibile. Sono stato molto contento, felice, però sapevo anche che era un ruolo importante perché essere il capitano dell’Italia, del tuo Paese, in una Nazionale giovanile, è il sogno di tutti i bambini”.

Eri stato convocato da coach Sacchetti per il doppio impegno delle qualificazioni agli Europei. Quanto ha fatto male a livello morale, più che fisico, dover rinunciare per quella distorsione?

“Diciamo che ha fatto male anche la distorsione! Però a livello morale i primi due giorni ero un po’ giù, la caviglia era gonfia e avrei voluto recuperare per il doppio impegno, ma non ce l’ho fatta perché mi ero fatto abbastanza male. Mi hanno rasserenato subito sia Roberto Brunamonti, il team manager, e Meo Sacchetti, che mi hanno chiamato e tranquillizzato dicendomi che ci saranno altre occasioni”.

Sacchetti ti aveva portato anche nel gruppo della Sperimentale del 2018. Che ricordo hai di quei giorni, che ambiente si era creato e come ti è sembrato il coach?

“Con Meo c’è un bellissimo rapporto fin dalla Sperimentale. Poi mi è venuto a vedere giocare anche a Treviglio, ci parlavamo, ci sentivamo, e già in Sperimentale ho capito che tipo di allenatore era. Umanamente e tecnicamente è super, si era creato un bell’ambiente in Sperimentale. Eravamo tutti ragazzi abbastanza giovani, e quelle tre settimane che abbiamo passato tra la Ghirada, a Treviso, e Vicenza, sono state molto divertenti. Quel periodo mi ha aiutato a crescere come giocatore. Stavo insieme a tutti i miei compagni di squadra, è stato molto bello. Ci siamo divertiti molto”.

In passato hai avuto modo di giocare anche nel 3×3. Quanto sono grandi le differenze con il basket nel senso più comune del termine?

“Ci son molte differenze. Oltre alla palla che è più piccola, ci sono determinate regole che sono totalmente diverse. Io ero andato a farlo, ma non ero consapevole della cosa a cui andavo incontro, non avevo mai giocato nel 3×3. Dovevamo fare una qualificazione per i Mondiali, e lì c’era un livello spaventoso: gente che chiamava gli schemi, che si conosceva, che ce l’aveva come lavoro di giocare in estate, andare in giro durante la stagione. Noi eravamo dei giocatori di A e A2 andati lì e non eravamo pronti per un simile livello, non allenati per riuscire a competere contro questi specialisti. Ricordo di aver giocato contro i quattro lettoni che sono tra i più forti al mondo”.

Se ti fosse chiesto, ci riproveresti con il 3×3?

“Sì, però è anche un po’ ‘pericoloso’, perché c’è il rischio di farsi male. Mi ricordo che ce le siamo date abbastanza. Ci riproverei, ma dipende da dove mi trovo, da molte cose. Magari quando finisco di fare il giocatore di Serie A (ride).

Non hai nascosto il fatto di avere Draymond Green come modello. Che cos’è che ti colpisce di lui?

“La sua energia, il suo modo di giocare, la personalità che mette in campo è qualcosa di incredibile. L’ho sempre reputato uno dei giocatori più importanti di Golden State. È ovvio che a tutti piacciano magari i Curry, i Thompson, però lui è l’elemento fondamentale che, oltre a difendere, parla con tutti, li incita, dice loro quello che bisogna fare, quando c’è da fare canestro lo mette, fa sempre la cosa giusta. È qualcosa che mi colpisce, mi appassiona. Mi piace veramente molto come giocatore”.

Comprendendo anche le giovanili a Milano, quali sono stati gli allenatori più importanti per te?

“Al minibasket, quindi ancora prima di Milano, c’era un allenatore, che era Roberto Ciardi, che mi ha aiutato e mi ha insegnato a giocare a basket all’inizio. Poi c’è stato Paolo Galbiati all’Olimpia che mi ha aiutato a crescere, e negli ultimi tre anni ho fatto lo step grazie ad Adriano Vertemati, che mi ha fatto crescere sia dal punto di vista tecnico che mentale. Quest’anno sicuramente anche Cesare Pancotto, perché al primo anno in A mi ha dato una fiducia che non tutti i giocatori italiani hanno al primo anno. Quello che mi ha aiutato di più a crescere è stato comunque Vertemati nei tre anni da senior a Treviglio”.

C’è stato qualche giocatore che hai affrontato a cui avresti voluto rubare qualcosa?

“Sì. Quando abbiamo giocato contro la Virtus Bologna, a Milos Teodosic. La visione di gioco che ha, i passaggi che fa, glieli prenderei senza problemi. Sembra capace di fermare il tempo, fa quello che vuole, è incredibile”.

Quali sono i tuoi obiettivi futuri?

“Come ogni anno, quello di continuare a migliorar per aggiungere qualcosa al mio bagaglio tecnico e continuare ad avere fiducia nei miei mezzi, continuare a lavorare. Ora bisognerà vedere quello che succederà, però sto comunque continuando a lavorare, per quello che posso, per tenermi in forma. Il mio obiettivo era quello di andare in Nazionale, e ci sarei riuscito se non mi fossi fatto male. Un sogno che ho è, più avanti, quello di giocare in Eurolega”.

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Credit: Ciamillo

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