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Beatrice Barberis, basket femminile: “A Torino anche per Massimo Riga. Spero di ritornare in Nazionale nel 3×3”

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Dopo una vita cestistica trascorsa al Geas Sesto San Giovanni, per Beatrice Barberis, la scorsa estate, è giunto il momento di cambiare. Si è trasferita a Torino, per sposare la causa dell’Iren Fixi, che aveva bisogno di riscattare una stagione piuttosto negativa. Il suo contributo è subito stato importante, con 12.3 punti, 4 rimbalzi e 3.8 assist di media in quest’annata senza una conclusione, risultando, assieme a Ilaria Milazzo, la più importante giocatrice nel blocco delle italiane. L’abbiamo raggiunta telefonicamente per un’intervista in cui ci ha parlato della stagione, degli anni al Geas, delle sue annate con le Nazionali e di argomenti legati alla ripresa futura.

Quali sono le sensazioni vissute nella stagione e poi per lo stop?

“La stagione è stata difficile. Per me è stato il primo anno lontano dal Geas, che è stata la mia squadra per 15 anni, quindi è stata un’esperienza molto importante. Il campionato, a livello di performance di squadra, è stato complicato perché abbiamo avuto molte difficoltà, però negli ultimi tempi stavamo trovando equilibrio, e anche per questo lo stop ha influito negativamente: era il periodo in cui, dopo tantissimi infortuni e nuovi arrivi, avevamo trovato la chiave per disputare al meglio il finale di stagione. Lo stop è un grande dolore sia a livello individuale perché si passa dall’allenarsi due volte al giorno al non allenarsi più, quindi l’impatto è veramente importante sulla nostra vita quotidiana. Poi finire così, senza playoff, playout, retrocessioni, scudetto è triste per il nostro sport come per gli altri. Però, anche se sembra superfluo dirlo, in questo momento è giusto così ed è anche giusto che ognuno di noi faccia un sacrificio in ogni sport sperando di riuscire a tornare a settembre nel miglior modo possibile”.

Nella sfortuna di doverti fermare hai avuto la fortuna di laurearti in Lettere moderne.

“Me l’ero immaginata in maniera chiaramente diversa. Devo dire che la soddisfazione e la gioia di arrivare al traguardo è uguale, quello che manca è tutto il contesto di festeggiamenti con gli amici, i familiari, anche la proclamazione. Però la soddisfazione rimane. Potrò dire in futuro di essermi laureata ai tempi del Covid-19! (ride) Alla fine, in realtà, hanno permesso di fare la discussione nelle stesse modalità, solo in via telematica. Ovviamente però non è la stessa cosa. Sono stata fortunata a riuscire a discutere, perché con le lauree triennali hanno abolito le discussioni perché non riuscivano a gestire tante discussioni online e quindi hanno mantenuto solo le magistrali. Anche loro si sono trovati in questa situazione per cui non erano preparati”.

Tu sei in tutto e per tutto una figlia del Geas, dove hai vissuto tutta la carriera cestistica prima di Torino.

“È stata la mia casa fino all’anno scorso”.

I ricordi sono tanti, dalle giovanili fino alla promozione.

“Sono stata fortunata perché ho dei ricordi bellissimi, dagli scudetti giovanili fino al sogno della promozione con il nostro gruppo storico, che era un po’ il sogno di una vita, perché quando giochi con la stessa squadra per tutto questo tempo il tuo sogno è quello di arrivare a giocare il massimo campionato con la tua squadra, i tuoi colori. È stato tutto veramente bello, mi porto ancora dietro tutte le amicizie, le ragazze, e per me rimarrà sempre la squadra del cuore, questo non posso negarlo. Credo sia giusto fare delle esperienze diverse, nel corso di una carriera sportiva, e comunque provarle, andare fuori casa, anche a livello di società diverse, però il Geas è stata la mia squadra per tanti anni”.

In sostanza, il cambio di squadra è stato soltanto dovuto al fatto che c’era questa voglia di provare qualcosa di nuovo.

“Più che altro stimoli nuovi, per fortuna non c’è stato nessun problema. Dopo tanti anni c’è anche bisogno di avere stimoli differenti, soprattutto nella carriera di uno sportivo, ma come succede in qualunque carriera lavorativa: vedere facce nuove, provare nuove esperienze. Credo che sia normale, fisiologico. Ho preso quest’occasione al balzo, perché mi stavo laureando. Non l’ho potuto fare prima anche perché frequentavo l’università, quest’anno mi mancava solo la tesi e quindi potevo permettermi di finire il percorso accademico in un’altra città. Quindi ho cercato di unire tutte le cose”.

Il tuo non è l’unico caso di giocatrice che riesce a coniugare la Serie A1 con la frequenza universitaria: c’è stato anche il caso di Jasmine Keys, che per la laurea ha rinunciato agli Europei.

Io sono veramente una paladina di questa unione, perché è veramente fondamentale riuscire a portarla avanti nel migliore dei modi possibili. Ho avuto compagne di squadra che magari non hanno avuto la possibilità di frequentare le lezioni, quindi si sono dovute iscrivere in modalità telematica, va benissimo anche quello. Trovo però che sia davvero fondamentale riuscire a continuare a studiare, perché il basket non ti da sicurezza dal punto di vista del professionismo. La carriera di uno sportivo è breve, non ci possiamo permettere di non studiare in questo momento, a meno che una persona non voglia rimanere nell’ambito cestistico o allenare, questo è un altro discorso. Ma anche in quel caso la laurea potrebbe essere comoda, infatti stimo veramente tanto tutte le mie compagne, perché viene sottovalutato questo sacrificio in più che noi facciamo”.

Hai toccato il punto del professionismo femminile, che in Italia è stato molto a lungo bloccato da una legge del 1981 e per il quale solo molto di recente si è iniziata a sbloccare la situazione.

“La verità è che noi, se si considerano i tempi di lavoro, siamo professioniste a tutti gli effetti. Paragonando la vita di una giocatrice di A1 con quella di un giocatore di A, sono veramente simili, cambiano solo le tutele che abbiamo a livello legale. Lo viviamo veramente in questi giorni, in cui purtroppo per la situazione di emergenza i campionati sono cancellati e inoltre neppure siamo professioniste e non abbiamo neanche una tutela sul nostro contratto. Quindi non è facile, perché comunque non è solo un divertimento, ma anche un lavoro”.

Il che va poi a ricollegarsi con la discussione che si è creata con gli stipendi di A1 e A2.

“Si è cercato di trovare un compromesso, perché mi rendo conto che la situazione delle società non sia facile, non credo lo sia per nessuno. Sicuramente è giusto cercare un punto d’incontro, è giusto così. Più che altro ognuno cerca di tirare un po’ dalla propria parte”.

Parlando di Geas, un capitolo d’obbligo spetta a Cinzia Zanotti.

“È stata la mia allenatrice da quando avevo 13 anni, quando sono arrivata al Geas, ad anni alterni fino all’ultimo anno. Mi ha proprio cresciuta”.

Il rapporto con il Geas è stato forse non come quello di una famiglia vera e propria, però comunque fortissimo.

“Per certi versi però lo è stata. Quando dico che il Geas è stato la mia seconda casa non lo dico per dire, è vero. Ero una bambina, mi ha fatto crescere, mi ha portato fino a giocare in Serie A1. A Cinzia devo molto per la mia carriera, come lo devo alla società. I ricordi che ho sono veramente belli, indipendentemente da tutto”.

Dal Geas sei riuscita ad arrivare al percorso delle Nazionali giovanili.

“Io non avevo mai fatto nessun tipo di selezione regionale o simili, e sono arrivata direttamente, non so bene ancora come, a fare la Nazionale con l’Under 17 con cui poi siamo andate a fare i Mondiali nel 2012. Ed è stata una delle esperienze più belle mai fatte, proprio perché era completamente inaspettata. Poi le giovanili le ho fatte tutte, con il bronzo europeo di Udine nel 2014 con l’Under 20, e lì è stato bello, giocare in casa con la maglia della Nazionale, un’esperienza stupenda. L’ultimo anno non è andato esattamente come volevamo, però è un’esperienza che mi porto dietro. Quando sei nelle giovanili non ti rendi veramente conto di quanto tu sia fortunato, invece dopo, quando cresci, non hai più quell’occasione e dici “cavolo”. Negli ultimi anni magari lo dai per scontato quando ci sei dentro, ma non per presunzione, ma perché sei dentro l’ambiente da anni e davvero non ti rendi conto della fortuna, della grande occasione che hai di poter fare Europei, Mondiali, confrontarti con giocatrici di tutto il mondo. È un’esperienza veramente bella”.

In quegli anni quali sono gli allenatori che ti hanno segnata di più?

“In realtà ne ho avuti solo due, e di conseguenza due staff tecnici. Uno è quello di Renato Nani, che è l’allenatore che mi ha presa dal nulla, perché non ero nessuna e mi ha portato in Nazionale e ai Mondiali, quando avevo al mio fianco gente molto più conosciuta e talentuosa, e gli devo tantissimo. Quello che forse mi ha dato di più è stato Nino Molino, perché oltre al fatto di avermi eletta capitana nell’ultimo anno, un onore e una soddisfazione incredibili, mi ha allenata tanto sul campo, a livello anche di sicurezza in me stessa, tranquillità. Peraltro il suo vice era Massimo Riga, che ho avuto quest’anno a Torino ed è uno dei motivi per cui ho scelto di andarci”.

Qualche anno dopo la Nazionale è tornata a occuparsi di te tramite il 3×3. Tu avevi già avuto esperienze?

“Prima di entrare in questo mondo, devo essere sincera, non ero mai stata la ragazza che d’estate andava tutti i giorni al playground a giocare. Mi è capitato di giocare 3 contro 3 con i miei amici, però non avevo quell’ossessione estiva. Poi sono entrata un po’ magicamente grazie ad Angela Adamoli, che adoro e ringrazio tantissimo, in questo mondo. All’inizio ero abbastanza scettica, perché è un mondo veramente diverso, cambia tutto, cambia la prospettiva. Poi lo scopo è lo stesso, quello di far canestro, ma cambiano tante cose. Ricordo che all’inizio, nei primi raduni, ero un po’ scettica, perché dovevo entrare nella dinamica del gioco. Poi mi sono innamorata, mi è piaciuto tanto, sono andata a fare gli Europei, poi purtroppo mi sono fatta male al ginocchio e quindi ho dovuto rinunciare ai Mondiali l’anno dopo. Però spero un giorno di poter rivestire la maglia della Nazionale nel 3×3. Vedremo”.

Confermi che il 3×3 è completamente un altro sport rispetto al basket normale per velocità e situazioni.

“Angela Adamoli dice che è uno sprint di 10 minuti, un’apnea”.

Ti sei inserita in un gruppo che si stava consolidando.

“L’anno in cui sono arrivata io era anche il primo di Rae Lin D’Alie, quindi il gruppo si stava modificando rispetto agli anni precedenti. Ci sono dei pilastri come la stessa Adamoli che hanno veramente accompagnato il movimento fin dalla sua nascita. Ed è fondamentale che ci siano queste persone, secondo me, per dare anche una continuità al lavoro. E mi hanno accolta benissimo”.

Hai parlato della sottovalutazione del fatto di andare nelle Nazionali giovanili, che però è un privilegio. Proprio per questo la mancanza degli Europei giovanili, quest’estate, si farà sentire, soprattutto per l’annata dell’Under 20 che non potrà affrontare l’ultimo anno.

“Credo che chi non ne abbia consapevolezza si renderà conto della sfortuna di questa situazione, ed è un peccato. Però purtroppo è un’emergenza mondiale, non ci si può nemmeno lamentare. L’importante è che questo momento passi, che si stia bene e che si torni in fretta in campo. Non ci sono Olimpiadi, Europei, miliardi di cose, ma bisogna fare dei sacrifici e speriamo di tornare non dico alla normalità, però almeno a qualcosa che ci si avvicini a settembre”.

Quali sono le tue prospettive future?

Di specifiche non ne ho, spero di poter continuare a giocare da protagonista in Serie A1. Quest’anno ho avuto la possibilità e la fortuna di avere tanti minuti in campo, e quindi tante responsabilità. Ovviamente la mia speranza è quella di continuare a crescere, ho tantissimo da migliorare ancora, e il mio obiettivo è questo. Da una parte continuare a migliorare e migliorarmi, dall’altra spero di continuare ad avere minuti in campo e crescere a livello di responsabilità e di prestazione. In questo momento non so, è veramente una situazione incerta, ma di incertezze ce ne sono tante, a livello di società, di ripresa del campionato. Purtroppo temo che quest’anno si andrà un po’ per le lunghe in tema di questioni di mercato”.

E non solo: si parla di giocare a porte chiuse.

“Ci pensavo proprio in questi giorni. Spero che si possa tornare alla normalità a settembre, perché giocare a porte chiuse è davvero un peccato per il movimento, per noi giocatrici, per tutti gli appassionati. È un po triste l’idea di dover giocare un campionato almeno fino a gennaio a porte chiuse, perché si perde tanto a livello anche umano, emotivo. Ma cosa possiamo farci?”

Alla fine l’ambiente dei palasport è quello che spinge a giocare.

“Non ho altre esperienze dirette, però ogni sportivo viene spinto dal pubblico. Da una parte è vero che da una parte si gioca per migliorarsi sempre di più, ma dall’altra c’è anche la gratificazione del pubblico che ti tifa, ti sostiene, ti incita, ti valorizza, ed è qualcosa che non si può sostituire con altro. Non ho mai giocato una partita a porte chiuse, non sono stata nemmeno in una di quelle squadre che ha avuto la possibilità di giocarci, come il Geas a Schio, però sarà traumatico”.

Ed effettivamente lo è stato per chi l’ha fatto al maschile o femminile: per dirne una, tra le scene più impressionanti degli ultimi giorni di basket giocato c’è stata quella del PalaEur a Roma vuoto, diecimila e oltre seggiolini bianchi.

“Poi ci sono palazzetti dove la telecamera fa praticamente parte delle panchine, e non ha gli spalti dietro. Cosa che è sempre stata orribile. L’anno prossimo può essere la salvezza di quelle squadre con quella sensazione di vuoto dietro, penso solo anche solo al PalaRuffini che non è che sia mai stato pieno zeppo, però comunque vedere un palazzetto così grande deserto fa effetto”.

A tal proposito, a Torino si è cercato di far arrivare il pubblico. Magari i numeri non erano quelli dell’A2 maschile, però la gente si faceva vedere.

“Devo dire che quest’anno è stato fatto un grandissimo lavoro a livello di sponsorizzazioni e cercare di convincere le persone ad andare. Hanno fatto gli abbonamenti a tutte le bambine del minibasket, a tutti i genitori, ed è un peccato che il palazzetto sia così grande, forse troppo per l’A1 femminile a Torino. In realtà i numeri alla fin dei conti non erano inferiori a tanti altri palazzetti, ma il problema è che quando ne hai uno di quattromila posti è ovvio che, quando nel femminile hai 500 persone, è diverso rispetto per esempio al PalaCarzaniga (l’impianto del Geas, noto anche come PalaNat, N.d.R.) per effetto; ad averne 500 a partita ci metterei la firma, nel senso che purtroppo la situazione reale è questa. In un palazzetto così grande, invece, così sparse sembrano molto meno, ma in realtà di gente che ci seguiva ce n’era“.

Ci vorrebbe, in sostanza, un impianto che sia medio tra le dimensioni del PalaRuffini e quello della PMS Moncalieri, il precedente.

“Secondo me il PalaRuffini è bellissimo, mi ricordo che anche quando ci andavo in trasferta ero combattuta tra il dire “quanto è bello questo palazzetto” e “ma quanto è vuoto”. Ci sono andata una volta quest’anno a vedere l’A2 maschile e veramente vederlo pieno è bellissimo. Però, purtroppo, bisogna anche guardare la realtà dei fatti, che dice che è un impianto grande e il calore del pubblico diventa dispersivo. Bisognerebbe trovarne uno più adatto, o convincere ancora più persone a venirci a vedere”.

Il che può anche dipendere dalla costruzione di una tradizione, come quella che ci può essere in una Schio, o anche in una Broni.

“Sono poche le squadre in Italia che hanno la fortuna di averla. Il punto è che nelle grandi città è ancora più difficile; in un paese è un po’ più facile di attirare i cittadini verso la pallacanestro. A Milano o a Torino, dove veramente una persona può andare da tutte le parti, fare qualunque cosa la domenica pomeriggio, far appassionare le persone al basket femminile è un po’ più difficile. Certo, poi i risultati aiutano, perché se fai l’Eurolega come Schio ovviamente porta anche una sensibilità maggiore rispetto alla partita, in relazione a un campionato un po’ più umile come la Serie A”.

Ma anche la stessa Reyer Venezia qualche difficoltà in termini di pubblico ce l’ha.

“Anche loro però hanno un palazzetto piuttosto grande, rispetto ai palazzetti medi in A1 femminile. Loro poi hanno contemporaneamente la fortuna e sfortuna di avere la squadra maschile, perché comunque un appassionato non ha voglia di andare magari a vedere due partite in un weekend, e allora la maschile fa un po’ da traino alla femminile”.

Hai parlato delle grandi città, dove si fa una grande fatica ad andare a un livello superiore all’A2. A Milano, per esempio, il massimo livello è il Sanga, proprio in quella categoria.

“A Milano è veramente un peccato. Se consideriamo la città in quanto tale c’è il Sanga e poi tanta Serie B. Considerando invece i dintorni c’è il Geas, visto che Sesto San Giovanni è attaccata, però è assurdo che in una città come Milano non si riesca ad arrivare ad avere una società simbolo. Il Geas ha un po’ sopperito a questa mancanza, adesso c’è anche Costa Masnaga, poi c’è anche Carugate, ma ad ogni modo, non si parla di Milano. Sarebbe bello avere un derby in A1 a Milano, una bella esperienza. L’abbiamo sempre avuto in A2, ma avere in futuro un derby di Milano in futuro sarebbe una cosa bella“.

Quali sono le giocatrici più forti con cui hai mai giocato?

“Chiaramente ci sarebbe Cecilia Zandalasini, ma come nome nemmeno lo direi perché ci sono cresciuta insieme. È stato un onore e un piacere giocarci insieme nelle giovanili e averla come amica. Secondo me, se dovessi giocarci contro adesso sarebbe ancora più impressionante, perché l’ho sempre solo vista giocare negli ultimi anni, mai contro. Per me non ci si rende conto di quanto stia migliorando esponenzialmente ogni giorno che passa. Sarebbe bello se un giorno potesse tornare in Italia. Non lo so se succederà mai, ma sarebbe bello”.

I tuoi miti del basket femminile?

“Io sono una giocatrice un po’ atipica, non ho mai saputo dire qual è la mia preferita. Nel passato non ho mai seguito moltissimo, non ho una grande conoscenza culturale e storica del basket femminile. Ho giocato però davvero con tantissime giocatrici forti, faccio fatica a dirne una. Non dimenticherò mai però, e non so perché mi sia rimasta così impressa, che nel primo anno di A1, avevo 18 anni, giocavo da ala grande. Ero alta forse un centimetro in meno di adesso, assolutamente fuori taglia. Giocavo contro Ragusa, ed ero contro Plenette Pierson, una che ha vinto tre anelli WNBA. Una giocatrice impressionante, che quando venne in Italia era a fine carriera ed era forte la metà di quello che era stata. Mi ricordo che a un certo punto mi sono trovata a marcarla, e giuro che ho pensato che un suo braccio fosse grande quanto la mia gamba. Una roba spaventosa. C’ero io che cercavo di arrampicarmi e giocarci contro. Ma anche la prima volta che ho giocato contro Chicca Macchi, ed ero una “pischella”, per me è stato veramente un onore giocarci contro. Ma ce ne sono tante da cui ho imparato e continuerò a imparare. Chicca poi è veramente incredibile, è ancora capace di fare la differenza e spero per tutto il movimento che continui a giocare ancora, perché è veramente uno spettacolo”.

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federico.rossini@oasport.it

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Foto: Carlo Granisso / LivePhotoSport.it

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