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Australian Open 2020: Sofia Kenin, la vittoria della personalità. Tre palle break per la svolta

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L’anno del tennis femminile si apre con una novità nell’elenco delle vincitrici di un torneo del Grande Slam. Sofia Kenin, 21 anni, nata a Mosca il 14 novembre 1998, ma trasferitasi negli Stati Uniti con la famiglia fin dai primissimi mesi di vita, è la vincitrice degli Australian Open 2020, dando peso ancora maggiore alla vittoria conseguita in semifinale contro Ashleigh Barty, idolo di casa, numero 1 del mondo e apparentemente lanciata verso il titolo o, quantomeno, verso l’ultimo atto.

Si potrebbero citare tanti momenti della cavalcata di Kenin verso il suo primo Slam, ma uno, sopra tutti, rende l’idea non solo della finale, ma del torneo. Terzo set, punteggio di 4-6 6-2 2-2, 0-40. Tre palle break per Garbine Muguruza. La fiducia dell’americana sembra al minimo, e la spagnola appare lanciata verso il suo grande ritorno alla vittoria in uno Slam, per di più senza essere testa di serie. Invece, dall’altra parte della rete arrivano due rovesci vincenti, un dritto anch’esso vincente, un ace e un dritto a campo aperto dopo la discesa a rete (forzata) di Muguruza. Basta questo a fare tutta la differenza: per Kenin è la scalata verso il Paradiso tennistico, per l’iberica è un viaggio verso la sconfitta, dal momento che non riesce quasi più a contenere le iniziative dell’avversaria.

Non è un trionfo giunto all’improvviso, perché nel 2019 si erano visti in maniera netta i miglioramenti di colei che, da lunedì, sarà numero 7 del ranking WTA, già solo con i risultati: vittoria a Hobart, finale ad Acapulco, successo a Mallorca, semifinali a Toronto e a Cincinnati battendo due numero 1 del mondo in due settimane (prima Barty, poi la giapponese Naomi Osaka), quindi ancora il trionfo a Guangzhou. Rimanendo semplicemente a Melbourne, se qualcuno guardasse solo il tabellone direbbe che ha incontrato soltanto una testa di serie (la più pesante) in tutto il torneo. Il tennis, però, è tutto meno che numeri. Martina Trevisan e la connazionale Ann Li, pur non potendo ad oggi competere sul piano del gioco con Kenin, arrivavano da tre e quattro vittorie consecutive legate alle qualificazioni, il che, tradotto in termini semplici, si chiama fiducia. La cinese Shuai Zhang è arrivata ai quarti nel 2016, è stata numero 23 del mondo e ha duramente impegnato l’americana nel terzo turno. Agli ottavi, di Coco Gauff s’è detto e scritto tutto: prodigio, capace di battere Osaka (con la nipponica che non ha concesso la scusa della propria pessima giornata, in maniera molto corretta). Risultato: un set per lasciarla sfogare, poi il 6-3 6-0 nei successivi due. Ai quarti la tunisina Ons Jabeur: un match critico, per lo stile diverso dell’avversaria e il suo grande cammino. In semifinale, Ashleigh Barty, e là dove in tanti già sognavano una finale Barty-Halep è invece arrivato qualcosa di ben diverso.

Quel diverso porta il nome di Muguruza. Una giocatrice che nella seconda metà del 2019 aveva messo piede in campo davvero pochissime volte, che era uscita dalle prime 30 e che, in generale, sembrava aver imboccato una parabola discendente lenta, ma inesorabile. Invece ha ripreso vita, e può uscire felice da questo Slam per aver messo in riga quattro teste di serie consecutive (l’ucraina Elina Svitolina, l’olandese Kiki Bertens, la russa Anastasia Pavlyuchenkova e la rumena Simona Halep). Il risultato di Melbourne la riporta al numero 16 della classifica, che non toccava da un anno. Ed è difficile, in questo senso, non attribuire un ruolo importante anche a Conchita Martinez, che già ai tempi della vittoria a Wimbledon 2017 si era messa al suo fianco nel ruolo di allenatrice e che, anche in questo caso, si è messa a disposizione di Muguruza dopo la separazione da Sam Sumyk. L’esito finale degli Australian Open, in sostanza, consegna una nuova star al tennis femminile, conferma un equilibrio di alto livello e restituisce ai palcoscenici ideali un nome che in pochi avrebbero pronosticato alla vigilia.

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federico.rossini@oasport.it

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Foto: LaPresse

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