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Tennis: le qualità di Matteo Berrettini. Gli aspetti tecnici da consolidare per il definitivo salto di qualità

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Nel 2016, Matteo Berrettini aveva perso sei mesi. Un infortunio al piatto tibiale sinistro gli aveva portato via quasi tutto l’anno, mentre veleggiava vicino alla cinquecentesima posizione del ranking ATP. Stava cercando, al pari di tanti altri azzurri, di farsi largo in quella selva oscura che sono i tornei Futures e i Challenger, dove ogni punto vale la vita, dove ogni soldo lo si cerca di guadagnare sputando quasi sangue, perché a quei livelli una vittoria in più o in meno fa differenza eccome.

Al ritorno, era numero 883 del mondo. Forse un destino, forse no. 883, come il gruppo, che nel 1996 pubblicò Dimmi perché. Matteo nel 1996 ci è nato, ma di perché non ne ha chiesti molti: ha preso in mano sé stesso, la sua romana voglia di emergere ed ha svoltato la propria carriera in poco tempo. Prima qualche semifinale Futures, poi, al challenger di Andria, una spettacolare finale battendo Chiudinelli, allora 120 del mondo, al secondo turno, Robredo ai quarti e cedendo solo a Luca Vanni in finale. Ma la strada era tracciata: 250 posizioni guadagnate in un colpo solo. Nel 2017, è arrivata la scalata: una finale challenger partendo dalle qualificazioni a Quanzhou (che non è Guangzhou), la prima vittoria su un top 100 (Djere) e il primo challenger vinto (San Benedetto), il guadagno di 300 posizioni in un anno. Nel 2018, le soddisfazioni: Tiafoe a Roma, il set con Zverev ancora al Foro, il terzo turno a Parigi con tanto di set tolto a Thiem, la vittoria su Jack Sock a Wimbledon. Soprattutto, una top 100 ormai stabilissima.

L’uomo che vorrebbe dare a Roma un altro tennista di cui ricordarsi, dopo Pietrangeli (tunisino di nascita, ma romano de facto), a 22 anni, sta mostrando delle ottime qualità per poter emergere come giocatore in grado di rappresentare il futuro dell’Italia al maschile. Armi migliori: un servizio che non si vedeva da tanti anni per un italiano, un dritto di primo livello, una personalità piacevole da vedere in campo. Agli addetti ai lavori, inoltre, è piaciuta spesso e volentieri la sua ambizione, la sua voglia di non stabilizzarsi sui challenger, ma di cercare di più il salto verso il circuito maggiore. C’è chi l’ha definito “un Seppi con più servizio”: forse il paragone non è del tutto sbagliato, anche se va detto che Andreas, nei suoi primi anni, aveva la tendenza a battere forti giocatori per poi capitolare al turno successivo (in verità, questo è stato poi il tratto che ha fatto di lui un giocatore-ostacolo: se sei meno forte o meno in forma di lui, non lo batti). In più, non è solo un terraiolo: il suo tennis pare fatto per far bene sul cemento, sia esso quello americano, quello asiatico o quello oceanico. Fanno fede, in tal senso, i tanti risultati già ottenuti sul duro nella corsa alla top 100. Ancora una volta, va sottolineato come questo modo di agire, lo scegliere la cosa giusta invece di quella facile, sia figlio di una mentalità che, a 22 anni, non è presente neanche in molti ragazzi della sua età con una vita diversa e con diversi obiettivi da raggiungere.

Poi, oltre ai pregi, ci sono alcuni difetti, sui quali si può però lavorare. C’è qualche difetto sulla seconda di servizio, come ammesso anche dal suo coach Vincenzo Santopadre (anch’egli romano e discreto giocatore tra fine Anni ’90 e Anni 2000, batté Magnus Norman al Foro Italico nel 2001), come pure sulle variazioni della prima. C’è qualcosa da limare nel rovescio bimane, che ancora deve migliorare in solidità nel suo complesso. Ancora, negli spostamenti può migliorare. In più, l’esperienza potrebbe mettergli a posto anche un problemino di natura mentale (che, comunque, a 22 anni non è inusuale):alle volte si demoralizza quando perde delle occasioni importanti (i match point con Kudla nelle qualificazioni agli Australian Open, il secondo set con Gilles Simon a Wimbledon per fare due esempi), anche se è vero che ci sono molte altre occasioni in cui ha reso molto bene, l’ultima delle quali è la rimonta con Jack Sock a Wimbledon in condizioni davvero non facili. E lì è stato bravissimo.

Matteo Berrettini, infine, un vantaggio ce l’ha. Può “sfruttare” il fatto che Fognini è, e sarà ancora per un tempo abbastanza lungo, il numero uno d’Italia per ampio distacco e che Cecchinato ha tutti i mezzi per mantenersi stabilmente nella zona della top 30. C’è chi, pur avendo fatto un’ottima carriera sulla terra più che su altre superfici, non ha avuto questa fortuna: parliamo di Filippo Volandri, che esplose coi quarti a Barcellona e Roma nel 2003 e venne nell’esatto momento in cui la stella di Andrea Gaudenzi si spense definitivamente. Volandri si trovò da solo a scalare la classifica, perché Davide Sanguinetti non era in un gran momento. Riuscì, con grande personalità, a reggere sulle proprie spalle l’Italia tennistica per cinque anni, finché non venne la generazione di Bolelli, Seppi e più avanti ancora Fognini. Adesso, Fognini sta lasciando libero lo spazio di emersione per Cecchinato, Berrettini, Sonego e gli altri. E questo non è un problema, anzi.

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Foto: Claudio Bosco / Livephotosport.it

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