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Golf: Justin Rose, l’Highlander del Merion; delusioni Major per gli azzurri

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“Ne resterà soltanto uno”. Il messaggio lanciato dal Merion Golf Club di Ardmore, dopo il primo giro dello U.S. Open, recitava pressappoco così. Nessuno, infatti, si attendeva un percorso di difficoltà talmente elevata e pieno di trabocchetti, anzi, la brevità del campo (6.397 m) poteva indurre a pensare ad un torneo con numerosi birdie, come ipotizzato anche da qualche golfista alla vigilia. Invece, l’intero field ha dovuto fare i conti con uno dei percorsi più complicati su cui si è mai giocato l’Open e che, a poco a poco, ha visto cedere uno dopo l’altro tutti i pretendenti alla vittoria

Tutti tranne uno, Justin Rose. L’unico a resistere per 72 buche senza crollare, senza eccedere negli errori, perché di fatto si è trattata di una gara a chi sbagliava di meno, tant’è che l’inglese ha concluso a +1, con punteggi sempre intorno al par (71 69 71 70), differentemente dagli avversari. Sbavature ridotte all’osso per Justin, che ha costruito il successo con i tee shot, raramente indirizzati fuori dai fairway, dove invece il rough era tagliato ad altezze proibitive. Ha vinto, però, soprattutto la regolarità di Rose, dote fondamentale per poter trionfare in un torneo con caratteristiche simili, che gli organizzatori hanno voluto rendere ancor più ostico inasprendo un campo di per sé già arduo da giocare e da sopraffare. Anche per questo, il successo di Rose assume contorni storici ed epici, oltre al fatto che un inglese non vinceva un Major da 17 anni (Nick Faldo al Masters) e uno U.S. Open addirittura da 43 anni (Tony Jacklin nel 1970). Ma non solo: quello sguardo rivolto verso il cielo, per ricordare il padre Ken morto di leucemia nel 2002, aggiunge quel pizzico di romanticismo nel primo Major della carriera per Justin, arrivato nel giorno della festa del papà negli Usa a 33 anni, forse anche un po’ tardi per le potenzialità del fenomeno inglese.

Un fenomeno è anche Phil Mickelson, seppur molto sfortunato e con un’aureola da perdente ormai ben visibile sopra la sua testa, perlomeno quando si parla di U.S. Open. Il californiano è al sesto 2° posto in questo Major, una maledizione che non vuole proprio saperne di interrompersi. Lo ha ammesso anche lui, sembrava la volta buona, invece nell’ultimo round l’effetto-Merion ha influito anche sull’amatissimo mancino di San Diego. Insieme a lui, il grande sconfitto del fine settimana è il numero 1 al mondo, Tiger Woods, apparso nervoso nelle prime due giornate e sempre più spento e abbattuto nelle ultime due. Il digiuno di Major continua, ma per tornare a ruggire anche nei tornei dello Slam Tiger avrà ancora due chance.

Di possibilità di riscatto ne avrà ancora la nostra coppia d’assi, Matteo Manassero e Francesco Molinari, che ai Major quest’anno non ha ancora stretto la mano. Eliminazione al taglio sia al Masters che due giorni fa, nuovamente con le medesime modalità: più sofferta l’uscita di scena di Matteo, senza appello quella di Chicco. Aldilà di come siano andati i due round giocati dagli azzurri, però, a rendere la delusione ancor più cocente sono state le premesse con cui entrambi si sono presentati ad Ardmore: da outsider, certo, ma con un alto grado di considerazione, vuoi per l’ottima condizione in cui vertevano nelle ultime settimane, vuoi per il campo difficile che poteva risaltare le loro qualità e la loro precisione. Ma gli azzurri si sono ritrovati imbrigliati nella sottile rete di trappole tese dal Merion, che ha mandato in bambola i nostri due portacolori. Una sorta di insofferenza psicologica nei confronti dei Major inspiegabile, anche perché mai in evidenza negli scorsi anni, che tratteremo più approfonditamente nel corso della settimana.

 

daniele.pansardi@olimpiazzurra.com

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