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Sci di fondo, 30 anni fa il trionfo in staffetta dell’Italia a Lillehammer 1994. L’ombra di Conconi, ma l’epoca era spietata

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Lillehammer 1994
Lillehammer 1994 | Stig Rune Pedersen (Wikimedia)

Oggi ricorre il trentesimo anniversario della medaglia d’oro conquistata dalla staffetta italiana di sci di fondo ai Giochi olimpici di Lillehammer 1994. Quel trionfo viene considerato il punto più alto nella storia del movimento azzurro, nonché uno dei pinnacoli tout-court degli sport invernali tricolori.

Non potrebbe essere altrimenti. La vittoria dell’Italia arrivò nella gara più sentita da chi, quell’Olimpiade, la organizzava. La favoritissima Norvegia padrona di casa, nazione di riferimento per il langrenn, fu “bruciata” in volata. L’equivalente calcistico sarebbe vincere un Mondiale in Brasile, giocando la finale contro la Seleçao allo Stadio Maracanà e segnando il gol-vittoria al 90’.

Se il lettore si attende un articolo di celebrazione dei fatti di quella giornata, o un’analisi di come si arrivò a quel risultato, resterà deluso. Gli accadimenti sono conclamati e sono già stati rievocati ripetutamente nel corso del tempo. L’obiettivo di questo scritto è un altro, ovverosia quello di riflettere sulla natura del terreno dal quale sorse quell’apoteosi azzurra.

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Perché ogni qualvolta si va a ricordare la staffetta di Lillehammer 1994, la maggioranza degli appassionati va in brodo di giuggiole e ne mistifica i contorni. Una minoranza, viceversa, la sminuisce, affermando con sdegno che “erano tutti dopati”.

Il nostro è un Paese complesso, in cui in ogni ambito compaiono schieramenti dicotomici. Nello sport, come in molti altri contesti, ogni qualvolta ci si trova di fronte a qualcosa di divisivo, si formano le fazioni dei “Pro” e dei “Contro”, egualmente intransigenti nelle proprie posizioni.

Il proposito di questo articolo è pertanto di provare ad analizzare il tema in maniera quanto più distaccata dal tifo per il drappo tricolore e dai moralismi di sorta. Dopo 30 anni si presuppone vi possano essere la maturità e la serenità di rivere quel giorno al di fuori dell’agiografia o del fariseismo.

Perché su quel trionfo si è successivamente allungata l’ombra del famigerato Centro Studi Biomedici Applicati allo Sport di Ferrara, diretto dal Professor Francesco Conconi. Tra i file sequestrati dai NAS nell’ottobre 1998, ve n’è uno in cui sono indicate variazioni sospette nell’ematocrito dei quattro staffettisti, talvolta con valori fuori norma (fra il 53% e il 57%).

Ne è scaturito un processo, al termine del quale Conconi e due suoi collaboratori (Ilario Casoni e Giovanni Gazzi) non hanno ricevuto alcuna sanzione poiché, nel frattempo, il reato di frode sportiva a loro contestato era finito in prescrizione. I tre sono stati assolti per ogni fatto accaduto dopo il 9 agosto 1995, ma riconosciuti colpevoli (seppur non punibili) per quanto avvenuto in precedenza.

Non c’erano solo i quattro componenti della staffetta d’oro di Lillehammer tra gli atleti presenti nei file. L’elenco era lunghissimo. Comprendeva anche ciclisti e marciatori, non solo italiani.

Questi sono fatti e non possono essere smentiti. Così come non può essere smentito un altro fatto. Nessuno dei quattro frazionisti è mai stato sanzionato per violazioni del codice antidoping. “Innocente fino a prova contraria” è uno dei capisaldi della giustizia, sportiva od ordinaria, di qualsiasi sistema civilizzato.

Non vi è la presunzione di cercare la verità assoluta tra due fatti in apparente contraddizione. Nella vita la si può fare franca, violando le norme senza essere colti con le mani nella marmellata. Al contempo, si può essere vittime di dicerie e illazioni che, se non provate, diventano diffamatorie o addirittura calunniose.

In questa sede si vuole porre l’accento su una determinata dinamica, ovverosia che, in Italia, c’è chi un giorno ha deciso di andare a controllare se vi fosse polvere sotto il tappeto. In altri Paesi è stato fatto? C’è chi ha deciso di ispezionare l’appartamento dello sport nazionale?

Qualcuno si è mosso allo stesso modo, facendo emergere parecchio marciume. Gli atleti di Germania, Austria, Finlandia – giusto per restare negli ambiti dello sci di fondo e/o del ciclismo – non viaggiavano certo a pane e acqua.

D’altronde, cos’erano gli sport di fatica di metà anni ’90? Un ambiente spietato, selvaggio, estremo. I controlli antidoping non avevano modo di stabilire con certezza se certi farmaci, come l’EPO, venissero utilizzati o meno. Erano irrintracciabili. Si usava l’escamotage di porre limiti legati a determinati valori sanguigni, ma la famigerata “positività conclamata” non esisteva.

Sono passati 30 anni e – a meno di confessioni in prima persona – non vi è più modo di stabilire chi e per quanto a lungo abbia fatto ricorso a determinati supporti chimici, il cui utilizzo (è bene ricordarlo) era rampante. Non per caso si è detto “sport di fatica”, senza limitarsi allo “sci di fondo”.

Quella era l’epoca delle salite scalate a velocità media folle nel ciclismo, del brodo di tartaruga nell’atletica leggera e di autentici siluri umani nel nuoto. Era un’epoca crudele, per certi versi eroica, perché bisognava averne di pelo sullo stomaco per accettare le regole non scritte di un gioco molto pericoloso.

Sarebbe petulante puntare il dito su atleti, tecnici e medici. C’erano dinamiche indicibili dietro lo sport di quei tempi. Le ombre ci sono, sarebbe patetico negarlo, ma resteranno per sempre tali. Ombre. Bidimensionali e impalpabili. Non si arriva neppure al concetto di macchia, poiché fino a prova contraria (e la prova contraria non c’è) ogni successo è legittimo.

Quella medaglia d’oro in casa della Norvegia resta e rimarrà per sempre, con tutti gli annessi e connessi. Dopo tre decenni è doveroso osservare quegli eventi con lo sguardo distaccato del senno di poi. Dunque, si lascino da parte la retorica e il moralismo, il ruolo di cantori o storyteller, la parte della madonnina infilzata o quella del censore.

Ciò che è stato, è stato. Come tale va preso, con serenità e maturità, nella contezza di quanto emerso successivamente. Fatti che, per onestà intellettuale, non possono e non devono essere rimossi. Però neppure condannati acriticamente. Alla luce del periodo a cui si fa riferimento, qualcuno disse “qui sine peccato est vestrum, primus lapidem mittat”.