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Rugby, Pro 14: i motivi di un flop milionario che dura da oltre un decennio per l’Italia

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Quando nel 2010 l’Italia entrò nell’allora Celtic League erano tante le giuste aspettative del rugby italiano di fronte a quello che doveva essere un salto di qualità per la palla ovale del Bel Paese. Undici anni dopo, però, questo salto di qualità è rimasto un sogno, mentre negli anni sono stati tanti i fallimenti e le perplessità per una partecipazione gestita fin da subito malissimo.

L’esclusione nel 2009 della Benetton Treviso a favore di una fantomatica squadra romana, il fallimento dopo un paio d’anni degli Aironi di Viadana, con uno scontro frontale tra la franchigia lombarda e l’allora presidente Dondi, poi la lunga battaglia tra Gavazzi e Munari, con i conseguenti disagi per il progetto Benetton sono state le più emblematiche difficoltà politiche di questa avventura. Cui si aggiunge la gestione fallimentare delle Zebre, prima federale, poi privata, poi nuovamente federale, con un esborso milionario senza che vi fosse un ritorno né di risultati né di crescita dei giovani in chiave azzurra.

Se a ciò aggiungiamo il triste pellegrinaggio del torneo tra i broadcaster italiani il panorama diventa sconsolato. Il Pro 14, infatti, è stato venduto a emittenti come Dahlia (miseramente fallita pochi mesi dopo), Rai, Sportitalia, Italia 2 Mediaset, Nuvolari (anch’essa fallita poco dopo),  DAZN. In poco più di 10 anni, dunque, il torneo celtico è stato rimbalzato tra almeno sei emittenti, alcune improponibili, altre che non hanno saputo/voluto scommettere sul rugby, relegandolo a ‘riempi buchi’, spesso (la Rai) trasmettendolo con differite a orari notturni. Il risultato, ovvio, dell’incapacità federale di dare credibilità al torneo e dall’aver affidato a persone non all’altezza il rapporto con le emittenti tv.

Se a ciò aggiungiamo che molto spesso si è preferito puntare su giocatori stranieri dalle dubbie qualità tecniche si capisce come il principale scopo dell’ingresso in Celtic League, cioè preparare i giovani italiani al livello internazionale, sia già di per sé stato un mezzo flop. A ciò si aggiunga che salvo rare eccezioni (i playoff raggiunti tre anni fa da Treviso) i risultati in campo non sono stati entusiasmanti, anche proprio per le questioni politiche e gestionali di cui parlavamo sopra.

Altro tasto dolente l’utilizzo dei permit player, cioè i giocatori che militano nel massimo campionato italiano e che vengono aggregati alle franchigie durante le finestre internazionali per ovviare alle assenze degli azzurri. Anche questa gestione è stata per anni fatta senza una reale programmazione e solo negli ultimi tempi i rapporti tra le due franchigie e i club del Top 10 è diventato più strutturato, ma per la singola iniziativa delle franchigie e non per una reale programmazione della Federazione.

L’avventura celtica, poi, ha visto spesso scegliere (parliamo principalmente delle Zebre) tecnici provenienti dalla filiera federale, magari messi come assistenti di head coach stranieri. Una scelta che, invece di far crescere le squadre, ha solo evidenziato la mancanza di una scuola italiana seria di allenatori, con i ruoli che sono stati assegnati con il metodo Cencelli piuttosto che premiando i migliori tecnici azzurri in circolazione.

Infine, ultimo ma non ultimo, la scelta di puntare sulla Celtic League ha portato la Federazione a demansionare il valore sportivo del massimo campionato italiano, cioè quel torneo che in teoria dovrebbe essere l’ultimo passaggio della filiera tecnica dei giovani talenti prima del Pro 14 e della nazionale. Questo significa che il livello tecnico del Top 10 è crollato negli ultimi anni e i giovani provenienti dai club o dall’Accademia non vengono preparati adeguatamente al torneo celtico. Serve riscommettere sul massimo campionato italiano che deve diventare il punto focale del movimento rugbistico, con Zebre e Treviso che diventano un ulteriore passo per giovani già formati e pronti a confrontarsi con il gotha del rugby internazionale.

Come si vede, tanti problemi politici, economici, gestionali e sportivi che nel corso di 10 anni hanno tarpato le ali alla possibilità che le franchigie celtiche crescessero e ottenessero risultati sportivi all’altezza delle attese. E con costi che sono così passati dall’essere un investimento per la crescita a essere un dispendio di energie economiche da investire invece sul movimento per farlo crescere.

Foto: Ettore Griffoni – LPS

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