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Rugby femminile, il ct Andrea Di Giandomenico “La ricetta della crescita dell’Italia. E verso i Mondiali…”

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Il 2021 sarà un anno cruciale per il rugby femminile italiano. Dopo una stagione difficile, interrotta e ancora ferma a causa del Covid-19, i prossimi 12 mesi vedranno le azzurre impegnate nel Sei Nazioni, ma soprattutto nella caccia alla Coppa del Mondo che a settembre si disputerà in Nuova Zelanda. Abbiamo fatto il punto della situazione con Andrea Di Giandomenico, ct dell’Italdonne.

Buongiorno Andrea, questo 2020 è stato complicato per il rugby femminile. Qual è lo stato dell’arte dell’Italdonne in vista di un 2021 molto impegnativo?

“Purtroppo c’è ancora l’incertezza a dominare sul futuro. Ci sono ancora discussioni in atto sia sul Sei Nazioni, programmato normalmente ma con il virus che incombe e, legato a questo, anche la qualificazione alla Coppa del Mondo che vede ancora tre posti da assegnare, tra cui quelli europei. La sfida più grande è gestire il carico per le giocatrici, con una competizione simile che si risolve in poche partite si rischia di buttare all’aria anni di lavoro per questa incertezza. Ma è qualcosa che riguarda tutte le squadre”.

Ovviamente l’emergenza Covid-19 rende tutto molto aleatorio e incerto, ma qual è il programma che ha in mente per l’Italia da qui alla RWC?

“È aleatorio perché non sono ancora state ufficializzate le modalità e le date per il torneo di qualificazione che va inserito in un calendario internazionale, tra World Series, torneo di ripescaggio, le Olimpiadi di Tokyo 2021. Noi lavoriamo, abbiamo programmato diversi raduni, ma come detto, stiamo alla finestra e aspettiamo notizie”.

Il 2021 si concluderà con i Mondiali in Nuova Zelanda e voi dovrete affrontare il torneo di qualificazione. Le avversarie, probabilmente, saranno Irlanda, Scozia e Spagna, tre squadre che conosce bene. Quali sono i loro punti di forza e qual è, secondo te, l’avversaria più pericolosa?

“In realtà la Spagna ancora deve qualificarsi, anche se sono sicuramente favorite, ma c’è anche la Russia in corsa. In ogni caso, sono tre squadre a loro modo impegnative. Iniziamo dalla Scozia. Sono anni che investe in un percorso di crescita, anche loro sono state sfortunate perché lo stop è arrivato dopo un cambio tecnico, ma il gruppo è coeso, lavora da anni assieme e comincia ad avere un buon equilibrio tra i reparti. Credo che il gruppo sia la loro arma e la loro voglia di crescere. Sono troppi anni che mancano dai Mondiali e sono motivatissime. La Spagna sicuramente nel gruppo del Seven è forte, quindi le loro armi migliori sono le trequarti e le terze linee. A loro forse manca l’abitudine a partecipare a manifestazioni come il Sei Nazioni, la loro debolezza può essere questa, la mancanza di esperienza a questi livelli, ma il punto di forza sono le skill individuali e la capacità di giocare negli spazi, grazie al Seven e alle World Series. L’Irlanda, infine, viene da una Coppa del Mondo negativa giocata in casa, hanno molta voglia di rivalsa. Guardando alla storia è la più solida di tutte e quattro, quella con più risultati, più abituata al più alto livello. Forse è la favorita, anche se credo che tutte debbano temere l’Italia. Insomma, non saprei chi scegliere, hanno tutte grandi motivazioni e punti di forze, forse l’Irlanda ha qualcosa in più come esperienza”.

In questi mesi ho intervistato diverse ragazze della nazionale e praticamente tutte hanno messo il gruppo come prima “arma” per i bei risultati ottenuti in questi anni. Come si costruisce una squadra così unita, soprattutto pensando che parliamo di una nazionale, con le atlete e lo staff che si vedono solo saltuariamente?

“Devo dire che cerchiamo di compensare la mancanza di opportunità con più raduni, soprattutto in questo periodo. Come si costruisce una squadra competitiva? Credo che il lavoro che abbiamo portato avanti, basato sull’unità e la centralità degli obiettivi, che sono principalmente tecnici, la nostra forza. Ci alleniamo guardando alle prestazioni, le ragazze si concentrano su come voler giocare a rugby, su che giocatrici vogliono essere e, quindi, che squadra vogliono essere. Hanno tutte una grandissima motivazione e passione, ma la cosa fondamentale è che questa passione venga orientata a un obiettivo, a porsi obiettivi. Attorno all’obiettivo che ci siamo posti, poi, si è consolidato un gruppo di amiche, che sono felice includano anche lo staff. Io credo molto nell’etica del lavoro”.

Lei è a capo dell’Italdonne dal 2009, una longevità cui si è poco abituati. Quanto conta poter lavorare così a lungo con una squadra per ottenere risultati di livello?

“Questa è anche una cosa che ripeto spesso. Se penso da dove siamo partiti la squadra è stata lunga, si pensa a questa nazionale come una squadra di successo, ma c’è stata la mancata qualificazione ai Mondiali 2013, che ha fatto male. Una lezione che ho imparato è che il lavoro paga, il problema è che non si sa quando. Nel 2013 non ci qualificammo per i Mondiali, ma pochi mesi dopo arrivammo terzi al 6 Nazioni, con tre vittorie, risultato mai raggiunto prima. Insomma, il lavoro pagò, ma con un anno di ritardo rispetto agli obiettivi che ci eravamo posti. Lavorare a lungo con un gruppo è sicuramente importante, ma credo che si possa anche cambiare staff se, però, c’è una condivisione dei progetti”.

Il rugby femminile in Italia in questi anni si è evoluto molto. Quali sono stati, secondo lei, i cambiamenti maggiori? C’è ancora una grossa differenza con il rugby maschile?

“È proprio grazie a un movimento che cresce, che la nazionale può evolversi. Credo che ciò che è cambiato in Italia sia stata la volontà di diversi club di scommettere sul rugby femminile, mettendo a disposizione spazi, tecnici e staff, che così hanno aiutato a far crescere il movimento. La consapevolezza dei club dell’opportunità di una squadra femminile sotto vari aspetti, sportivi e sociali, ha permesso tutto ciò. La nazionale ha sicuramente aiutato a dare consapevolezza alle ragazze, le ha ispirate a provare questo sport. È un circolo virtuoso che fa crescere nazionale, club, movimento e tutto con un’unità d’intenti, remando nella stessa direzione. Con il rugby maschile il gap è quello del professionismo, anche se a breve dovrebbero esserci novità anche qui. Il rischio è di sovrapporre una questione di genere a una questione di statuto, basta pensare che ci sono anche tanti uomini nel mondo ovale che non sono professionisti. Il gap da colmare per me è strutturale, ma è un argomento spinoso, che va affrontato con grande attenzione prima di commettere errori. Ma, come hai notato, di passi in avanti se ne sono fatti tanti”.

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Foto: Origo Valerio

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