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Eugenio Dalmasson: “Il basket dovrà confrontarsi con la situazione del coronavirus. 10 anni a Trieste per accettare sempre nuove sfide”

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Con 10 anni di permanenza sulla panchina della Pallacanestro Trieste 2004, erede della quasi omonima società che in epoca Stefanel si impose tra le grandi del basket degli Anni ’90, Eugenio Dalmasson ha guadagnato una grande dose di rispetto tra tutti i suoi colleghi. In terra giuliana ha saputo riportare in città prima la Serie A2 e poi la Serie A, navigando con sapienza anche nella fase più tempestosa, in termini recenti, della storia della società. Abbiamo raggiunto l’uomo che ha lanciato, tra gli altri, Michele Ruzzier e Stefano Tonut per un’intervista telefonica, in cui ci ha parlato della sua pallacanestro, di uomini, di storia di questo sport e di una Trieste che sta prendendo forma in un’annata che si prospetta ancora piena di incertezze.

10 anni con Trieste, e la storia continua. Qual è il segreto dietro a una permanenza tanto lunga?

“Sicuramente la volontà da parte di società e sottoscritto di accettare di volta in volta queste sfide, senza pensare a quello che si è fatto l’anno prima, ma sempre a quello che si dovrà fare. C’è sempre stata la capacità di azzerare tutto e ripartire con nuovi stimoli ed aumentata fiducia, ed è diventata sempre una situazione abbastanza normale dare continuità a questo lavoro, anche se parlare di normalità per una permanenza di 10 anni in una società sportiva, soprattutto in Italia, è qualcosa di particolare”.

10 anni in cui la società ha sempre dato la sensazione di non fare il passo più lungo della gamba. All’inizio la promozione dalla B all’A2, poi gli anni di assestamento, quindi la promozione e infine la permanenza in A con tanto di quarti playoff nella stagione 2018-2019.

“Certamente è stato un percorso graduale. La mancanza di una proprietà forte, in alcuni anni, ci ha obbligati a fare delle scelte per cui andavamo a giocare con molti ragazzi giovani. Da lì abbiamo avuto la fortuna, la capacità, la bravura di far uscire il talento dei vari Ruzzier, Tonut, Candussi. Poi, con l’arrivo in Serie A2 dello sponsor Alma, siamo riusciti ad alzare il profilo dei nostri obiettivi. Abbiamo fatto due finali consecutive, la prima persa contro la Virtus Bologna e la seconda vinta contro Casale, che è quella che ci ha portato a tornare in A1, cosa che penso Trieste meriti soprattutto per la passione e cornice di pubblico che assiduamente frequenta questo palazzetto”.

Che, se non è pieno, ci va vicino.

“Assolutamente. Abbiamo un numero di abbonati tra i più alti in Italia, ne abbiamo quasi 4500. Abbiamo uno dei più grandi palasport in Italia, da quasi 8000 posti con una media di 6000 persone. Numeri importanti”.

Con giocatori importanti: oltre a quelli citati, una nota di merito va anche a determinati giocatori americani, come Javonte Green che poi è riuscito ad arrivare anche in NBA, un atleta pazzesco.

“Siamo orgogliosi e felici per la storia bella. Abbiamo pescato questo giocatore in una terza serie spagnola. Guadagnava 12000 dollari. L’abbiamo portato qui a Trieste, ed è riuscito, al primo anno, a trovare una sua dimensione, e al secondo anno a esplodere definitivamente. Adesso ha la fortuna di calcare i campi della NBA, gioca con i Boston Celtics. È una storia che ci rende particolarmente orgogliosi, quella di aver trovato questa perla preziosa persa in un terzo campionato spagnolo. Questo è qualcosa di molto particolare”.

Allo staff tecnico si è aggiunto Franco Ciani: avevate lavorato insieme circa 25 anni fa. Che sensazione c’è nel tornare a lavorare con lui dopo tanto tempo?

“Avevamo fatto anche, un paio d’anni fa, l’Under 20 con la Nazionale, gli Europei. Chiaramente però alla base c’è una grandissima stima della persona, oltre che dell’allenatore. Ritrovarsi è la cosa più semplice e naturale, siamo soddisfatti per essere riusciti ad aggiungere al nostro staff un giocatore importante come quello di Franco”.

A proposito di quell’Under 20: l’Italia fu ottava, ma aveva tanti talenti. Non c’era solo Davide Moretti.

“Infatti siamo stati eliminati dalle semifinali per un canestro finale contro la Croazia, eravamo andati vicini a fare un risultato importante. Avevamo avuto alcuni infortuni, l’inserimento di Moretti proprio alla vigilia di quei campionati. Abbiamo dato tutto quel che potevamo dare. Fu un’esperienza positiva”.

Moretti, Pajola, Mezzanotte. Tutta gente oggi in Serie A regolarmente.

“Infatti era una squadra con elementi di talento. La nostra differenza è che raduniamo i migliori 15-20 giorni prima delle manifestazioni, le altre nazionali iniziano un mese prima e arrivano molto più pronti e preparati. Però noi abbiamo venduto cara la pelle a ogni partita”.

Quali differenze tra la squadra di questa stagione e quella della prossima, senza soffermarsi troppo sui nomi, bisogna aspettarsi a livello di struttura?

“In questo senso delle idee le abbiamo. Vista la situazione attuale, giocoforza stiamo vivendo un mercato molto diverso rispetto a quelli precedenti. Tolto il mercato delle primissime 3-4 società, le altre sono ancora quasi ferme ai blocchi di partenza. Dipenderà molto dalle risorse che avremo a disposizione e che ci offrirà il mercato. L’idea è di tornare al 5+5, invece del 6+6 delle ultime due stagioni, e cercheremo di aumentare la fisicità della squadra. Questo è un obiettivo su cui stiamo cercando di mettere le nostre attenzioni per il mercato”.

Nella scorsa stagione quanto è stato difficile convivere con l’alternanza de facto di Elmore e Justice, prima dell’arrivo di Hickman?

“Questo problema l’abbiamo avuto con tanti giocatori. Ne avevamo molti alla prima esperienza sia in Europa che, soprattutto, in Italia. Abbiamo esordito con un inizio di calendario da far tremare i polsi: le prime cinque giornate contro Sassari, Milano, Brescia, Venezia. Siamo partiti un po’ ad handicap, giocatori inesperti, giovani, che non conoscevano il campionato, partendo con una serie di risultati negativi ha fatto sì che diminuissero le certezze e aumentassero le paure. Purtroppo quello è stato un po’ lo scotto. Per riallacciarmi alla domanda, la mancanza di continuità è il problema che si è avuto nei singoli giocatori, e si rifletteva chiaramente anche nelle prestazioni della squadra, Questo, però, era principalmente dovuto a una dose di poca conoscenza del nostro campionato”.

Campionato che poi, per Trieste, è finito in quel modo straniante con la partita a porte chiuse. Anche difficile da allenare, s’immagina.

“Rimane il ricordo che è stata l’ultima partita ufficiale di questa stagione. Però, al di là del contesto che non era quello abituale, giocare quella sfida contro Pistoia, che era uno spareggio, che arrivavamo a disputare dopo un mese di inattività per la sosta della Nazionale e tutto, e vincerla, ci aveva fatto pensare che eravamo sulla strada giusta. Avevamo intrapreso un percorso nuovo. Chiaramente non avremo mai la prova dei fatti, ma probabilmente Trieste avrebbe effettuato una seconda parte di stagione molto diversa dalla prima”.

Lei avrebbe interrotto il campionato o avrebbe cercato di riprenderlo, com’è avvenuto in Spagna, Germania e Israele?

“La mia sensazione personale, da persona prima che da allenatore, è che già quella partita l’ho vissuta come una forzatura. Si percepiva in modo molto chiaro quello che stava succedendo. Appena terminata la partita sono volato in macchina perché, essendo veneto, mi stavano giungendo notizie che la Regione stava chiudendo, stava diventando tutta zona rossa, e sono rientrato a casa in fretta e furia. La situazione stava precipitando. Sospendere il campionato in quel momento è stata la scelta più giusta”.

La Sua storia s’incrocia, in parte, con quella di Ettore Messina, perché siete stati a Mestre e a Udine in epoche molto simili, negli stessi anni.

“Io sono sempre arrivato dopo di lui. È chiaro che il paragone non regge, però io sono arrivato a Mestre, entrando in corsa, quando lui è andato a Udine con Massimo Mangano e poi, quando è andato a fare l’assistente a Bologna io sono andato a Udine. Ci siamo un po’ seguiti lì, poi il suo percorso chiaramente è stato molto diverso dal mio. Abbiamo in comune il fatto di aver iniziato a fare i primi passi da allenatore a Venezia e Mestre”.

Che aria si respirava in quei luoghi a quei tempi?

“Già il fatto di avere due squadre di Serie A a distanza di nove chilometri, a Venezia e a Mestre, con due settori giovanili importanti, era motivo di grande rivalità e grandi confronti. Mestre, grazie al suo presidente di allora, Pieraldo Celada, è stata la prima che aveva creduto in modo molto forte nel settore giovanile investendo soprattutto sugli allenatori. C’era Ettore Messina, c’era Santi Puglisi, c’era Claudio Bardini, c’era Lele Molin, c’era Stefano Bizzozi. Vedere tutti questi nomi, messi insieme, nello stesso settore giovanile, non credo sia successo in nessun’altra società. Ma questa è una visione lungimirante del presidente Celada, che aveva grandi investimenti nel settore giovanile, ma, appunto, soprattutto sugli allenatori”.

Ed effettivamente una simile lista di allenatori oggi fa tremare i polsi.

“E quelli lavoravano tutti nello stesso periodo. Io facevo il capo allenatore degli Allievi e Molin era mio assistente, io lo facevo a Bardini, che lo faceva a Messina. Questa era in quel momento la chiave tecnica di una società come Mestre. C’era un livello talmente alto, una tale possibilità di imparare ogni pomeriggio, ogni allenamento, che ha portato a raggiungere risultati importanti. Al tempo Mestre faceva tutta l’attività giovanile solamente con ragazzi della città. Non c’era reclutamento, non c’era foresteria. Eppure in quel momento facevamo 2-3 titoli all’anno”.

Da Mestre alla Reyer, anche lì hanno continuato questa tradizione di settore giovanile.

“Con la Reyer il settore giovanile è la chiave più bella anche della sua storia recente, perché il presidente Brugnaro e poi Federico Casarin hanno creduto molto in questo. Credo sia una delle pochissime società che, oltre a fare le due Serie A, maschile e femminile, allestisca anche un settore giovanile estremamente importante. In questo momento è una cosa che nessun’altra società fa. Di questo va dato loro merito, dagli scudetti che vincono con le proprie squadre, avere la forza e la volontà, perché è uno sforzo economico importante, di allestire due settori giovanili di altissimo livello”.

Serie A1 femminile che, dall’anno scorso, è riuscita a fare anche la Virtus Bologna, inglobando anche il femminile.

“La Reyer in questo è stata capofila, la Virtus la sta seguendo. (Nel frattempo, fatto non noto al momento dell’intervista, è emersa Sassari, N.d.R.) So che anche Milano sta facendo qualche pensiero su questo. È chiaro che se hai la forza di avere una società importante, abbracciare anche il movimento femminile dal punto di vista mediatico è una cosa importante”.

A proposito di allenatori e società storiche, c’è Vigevano che ha uno storico di coach di grandissima importanza. E Lei è arrivato lì a cavallo tra due millenni.

“Vigevano è stata ancora una piazza straordinaria, ricca di passione, con un seguito di tifosi attaccatissimo alla squadra. Avere 200-300 persone a vedere gli allenamenti ogni giorno era qualcosa che per me, che arrivavo da una realtà di provincia più tranquilla come quella di Vicenza, è stato molto importante. C’è il rammarico di aver perso la finale con Scafati per la promozione in Serie A il primo anno, però Vigevano è una piazza che manca alle categorie superiori”.

A proposito di Vicenza, anche quella è una storia particolare. Era riuscita a risalire in A2, poi c’è stata la cessione alla Udine di Edi Snaidero. Cos’era successo?

La cosa straordinaria è che siamo riusciti a raggiungere quell’obiettivo pur sapendo da gennaio che la società che avrebbe venduto il diritto, allora di Serie B. C’era stato l’accordo con Snaidero per cederla. La squadra fu capace di estraniarsi da tutte queste vicende societarie e di rimanere sulle partite, sulla nostra pallacanestro, e siamo riusciti addirittura ad andare in A2. I dirigenti di allora, a quel punto, si trovarono a vendere un titolo non di B, ma di A2. Snaidero aveva assunto Matteo Boniciolli per fare la Serie B con un discorso legato molto alle giovanili, poi l’accordo era stato raggiunto in tempi non sospetti, si trovarono in mano un diritto di A2 e da lì Udine tornò a essere importante”.

Praticamente faceste loro un favore.

“È stato un colpo di fortuna, ma anche una grande soddisfazione da parte nostra. In quelle situazioni si tende a lasciarsi andare. Hai già il pretesto e la scusa della società che sta smobilitando, quindi il risultato in quel momento non era la cosa più importante. Noi anche in quello abbiamo trovato la forza di un gruppo con personalità molto forti. Il nostro capitano era Federico Casarin, che guidò la squadra”.

Casarin che attualmente è presidente della Reyer e padre di un giocatore che sta facendo più di un passo importante.

Sicuramente Davide è uno dei giocatori più interessanti. Diciamo questo, è giusto dirlo: è un ragazzo che ha grandi qualità tecniche e fisiche, grande passione, e se saprà continuare a lavorare e a portare quei miglioramenti che ogni anno è stato capace di inserire nel suo repertorio, sarà uno dei prospetti migliori che la pallacanestro italiana potrà offrire nei prossimi anni”.

Abbiamo parlato marginalmente della Reyer Venezia. Lei l’ha allenata negli anni in cui stava risalendo. Che tipo di ambiente c’era intorno negli anni in cui si stava completando il percorso dalle serie minori alla A?

“La cosa a cui mi sento più legato, e che mi continua a far sentire molto partecipe per una società addirittura rivale e avversaria, è che quando Brugnaro decise di abbracciare l’avventura della pallacanestro chiamò Federico Casarin come general manager e me come allenatore. Siamo partiti noi tre, un percorso bello perché siamo riusciti a fare la B1, ad andare in A2. Poi lavorare nella propria città non è mai semplice. Siamo partiti con 200-300 persone e abbiamo riportato il sold out al Taliercio. È stato un cammino che ci ha portato grandissime soddisfazioni, però credo che quando ci capita, ogni tanto, di ritrovarci e ricordare assieme a loro queste cose qui, siamo molto orgogliosi di aver costruito qualcosa che ancora oggi li porta a raggiungere risultati incredibili. Siamo partiti insieme ed è il ricordo più bello che ho”.

Rinnovando una tradizione lunghissima che riporta fino alla Misericordia, il celebre campo dentro una chiesa.

“Quella è stata una cosa che fa parte della storia di una città, perché si giocava a pallacanestro in Serie A in una chiesa sconsacrata, con in alto degli affreschi bellissimi. Adesso è diventato un museo, non si gioca più (giustamente) a pallacanestro. Però il basket a Venezia città è stato legato per anni alla Misericordia”.

La scelta di rinnovare Fernandez è indice di volergli dare in mano la squadra?

“Abbiamo trovato sempre in lui un valido giocatore capace di aiutarti in tutti i momenti, soprattutto in quelli più difficili. Questa sua affidabilità, il suo dimostrare di essere giocatore che ha fatto B e A2 da protagonista e anche adesso sta facendo vedere che in A può fare molto molto bene. Noi siamo contenti, lui si è trovato splendidamente bene con la famiglia qui a Trieste ed era quasi una cosa scontata quella di proseguire questo tipo di rapporto”.

Quanto e come è cambiato il basket in tutti questi anni in cui Lei l’ha vissuto?

“È cambiato tanto, com’è cambiata la nostra società. Tutti i cambiamenti che vediamo all’interno del nostro sport sono quelli che ci sono stati all’interno della società civile. Prima si giocava a pallacanestro come dopolavoro, come passione, adesso è diventata per molti un’attività, una professione, un lavoro. La cosa sicuramente, parlando di cose di campo, è che c’è stata sicuramente un’evoluzione maggiore della qualità fisica degli atleti. Oggi se non sei un atleta allenato e con potenzialità fisiche di un certo tipo difficilmente arrivi a giocare ad alti livelli. Un tempo bastava essere dotati o di una certa statura o di una discreta tecnica, ed era tutto più accessibile. Oggi c’è una selezione molto più elevata, più importante, e che è soprattutto di natura fisica. Oggi ci vogliono degli atleti con grosse qualità”.

La situazione attuale della pallacanestro è molto legata alle problematiche del coronavirus. Quanto potrà incidere soprattutto per la prossima stagione?

Sicuramente la pallacanestro non potrà non confrontarsi con questo tipo di situazione. I problemi li abbiamo e avremo, perché finché non ci sarà un vaccino ci dovremo fare i conti. Il fatto di poter giocare a porte chiuse o con capienza limitata fa capire che siamo comunque in una situazione di emergenza. Le società pur di continuare dovranno fare dei grossi sacrifici e impegni, perché fare sport senza pubblico è una cosa surreale, però adesso la cosa più importante è serrare le fila, stringere i denti, provare a mantenere vivo l’interesse nei confronti del nostro sport. Ci auguriamo tutti che torni al più presto una situazione di normalità, anche se quest’anno sarà particolarmente difficile”.

Lei cosa pensa del format che è stato creato per la Supercoppa in occasione dei 50 anni della Lega Basket, con tutte le squadre partecipanti?

“Noi siamo ora condizionati dal fatto che, al contrario degli anni scorsi, non sappiamo come si partirà, e questa è già una cosa che va a mutare un po’ lo scenario. Non si sa chi parteciperà al campionato, quindi siamo di fronte a uno scenario completamente nuovo, che può portare colpi di scena in ogni momento. Fare una disamina di quel che potrà essere la stagione prossima è complicato. Ogni giorno può succedere qualcosa, nel bene o nel mare, e dobbiamo navigare a vista e farci trovare pronti. È un impegno che noi addetti ai lavori dobbiamo provare a dare. È difficile provare a capire che stagione ne potrà uscire quando non abbiamo ancora elementi certi sui quali basare la nostra stagione”.

Quali sono i giocatori a cui Lei è stato più legato, o comunque per i quali sente di aver avuto un ruolo importante per la crescita?

“È chiaro che la storia di uno che ha avuto la fortuna, e sottolineo questa parola, di allenare per tanti anni fa sì che di giocatori ne ho avuti talmente tanti e, facendo dei nomi, rischierei sicuramente di dimenticarne qualcuno. Mi limito alla parte triestina: sicuramente aver fatto esordire Michele Ruzzier e Stefano Tonut, che adesso sono nel giro della Nazionale, è qualcosa che ha dato un senso importante al mio lavoro. E dopo, se vogliamo aggiungere il discorso di prima degli americani, Javonte Green, una storia particolare e bella che un allenatore non può non portare con piacere nel proprio cuore”.

Stefano Tonut che fra l’altro ha portato avanti una bella tradizione di famiglia, e sappiamo bene quant’è difficile, quando c’è stato un padre forte, come lo è stato Alberto Tonut, avere un figlio che passi ancora per quella strada.

“Stefano sta bruciando i tempi, nel senso che ha già vinto due scudetti. Sta provando anche lui a oscurare quella che è stata l’importante carriera del papà. Ma queste sono storie belle, perché questi ragazzi all’inizio vengono sempre nominati come i figli di. Adesso si parla di quello che fanno loro”.

Facendo diventare Alberto “il padre di”.

“Infatti ora Alberto gode di una bella possibilità di apparire nelle interviste perché la storia si sta ribaltando. Ma è motivo di grande orgoglio per il papà avere il figlio che sta facendo un po’ po’ di carriera e per il figlio avere un papà che ha avuto una carriera come quella di Alberto”.

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Credit: Ciamillo

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