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Rae Lin D’Alie, basket 3×3: “Ho pregato Dio di farmi giocare per l’Italia. Sogno le Olimpiadi. Il mio cognome non era questo…”

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Rae Lin D’Alie, per la pallacanestro italiana, significa molto. E la sua è una storia che va molto al di là della Nazionale 3×3, del titolo mondiale vinto a Manila nel 2018, del fatto di essere nominata MVP della manifestazione. Si tratta, infatti, di un racconto che nasce da molto lontano, dalle vicinanze di Salerno, dove vivevano i suoi bisnonni, tra i tanti italiani che andarono a cercare una miglior vita negli Stati Uniti. Nel caso di Rae Rae, come tutti i fan del 3×3 hanno imparato a conoscerla, è un viaggio che la riporta verso l’Italia, con un particolare amore per quella Bologna in cui ha attraversato una larga fetta della sua parabola cestistica. Tornata di recente negli States dopo la fine improvvisa della stagione, l’abbiamo raggiunta per un’intervista in cui ha mostrato una carica positiva che si trascina dietro da tantissimi anni e che è, per ampia misura, il suo tratto distintivo.

È stato brutto chiudere la stagione in questo modo?

“Sì. Eravamo in un momento nel quale speravamo di cambiare il ritmo, perché la stagione per noi è iniziata molto a rilento, e poi abbiamo ricostruito la squadra cambiando alcune giocatrici e il coach. Poi sembrava che avessimo preso la strada giusta, ma un po’ gli infortuni e un po’ il virus ci hanno fermati. Da un lato è stato frustrante, perché per tutto l’anno abbiamo cercato di arrivare a un livello di gioco che sapevamo di avere dentro, abbiamo avuto dei flash di questo, e non abbiamo avuto l’opportunità di dimostrarlo a fine stagione, ma dall’altro sono grata perché c’è un popolo nel mondo che sta pensando alle vite prima dello sport, che è una grande lezione che stiamo tutti imparando: priorità al valore delle vite umane. Da quel lato sono molto felice di esistere in un mondo umano che ci tiene a proteggersi. Spero che ci sarà una prossima fase in cui tutte le cose che sembrano un po’ bloccate, o perse, per noi, possano essere riattivate e che potremo cercare di conquistare e dimostrare quello in cui abbiamo creduto dentro di noi fino alla fine”.

Stavate cercando di mettere insieme i pezzi del puzzle, però stavate andando bene. A un certo punto avete battuto anche Ragusa.

“Dopo Broni e Ragusa avevamo preso uno stile di gioco, un ritmo e un’intensità che abbiamo riconosciuto come DNA di questo gruppo. È stato molto frustrante perché la settimana dopo, per esempio, ho avuto un infortunio, e non è facile per un playmaker andare giù, perché poi deve cercare di nuovo il ritmo, l’intensità. Le ragazze l’hanno fatto, loro sono state molto brave e lo è stato anche il coach. Stavamo solo sperando, anche con il rientro nella fase finale, di poter arrivare a rivedere quel prodotto”.

Parlando dell’infortunio, cos’è successo?

“Mi sono strappata il bicipite femorale sul lato sinistro. Però non dico che la stagione della Virtus dipenda da una giocatrice, assolutamente. Per me le ragazze stavano facendo un grandissimo lavoro, potevamo continuare con o senza di me, e io credo che fino alla fine, anche se io non ho giocato, un’altra partita l’avremmo potuta fare. I cambiamenti, i motivi che abbiamo visto quest’anno sono stati tanti: di coach, di giocatrici, dall’A2 all’A1, i momenti importanti, gli infortuni. Sembrava un’onda di circostanze che ci ha messo davanti alla sfida di mantenere una stabilità e consistenza comune nel cercare di portare il meglio possibile in campo. Posso dire con certezza, al 100%, che questo gruppo, coach, giocatrici e staff, non ha mai mollato e non ha nemmeno mai pensato di farlo. Eravamo già pronti per un anno stimolante, e quando le sfide c’erano, non dico che fosse perfetto, ma cercavamo di imparare come amalgamarci bene per continuare a conquistare i piccoli momenti fuori dalla partita che ci potevano consentire di vincere la partita stessa”.

A proposito di cambiamenti, quest’estate c’è stato il “cambio” Progresso-Virtus, un’estate per così dire complicata.

“In realtà complicata no, perché eravamo molto riconoscenti. Il nostro sogno era sempre stato quello di giocare in A1. Ovviamente siamo molto grate per il lavoro del Progresso, perché Gianfranco Civolani ci ha permesso di giocare in una città, e quel gruppo di ragazze stava insieme da 7-9 anni. Io sono entrata negli ultimi 4. Per loro il sogno di avere una squadra a Bologna c’era sempre stato, per sfruttare l’opportunità di arrivare all’A1, e finalmente andare su. Eravamo molto molto grate per il lavoro fatto e alla Virtus, che ha visto un valore, certe cose che sono piaciute e noi eravamo semplicemente grate con la consapevolezza che questa storia è incredibile e molto bella. E ora davanti a noi ci sono delle nuove sfide. Quando dico che è stata impegnativa, è perché anche quando fai il cambio A2-A1 ci sono sfide diverse, il terreno è nuovo, cerchi di capire il miglior modo di portare il prodotto del tuo gruppo in campo, non solo per ‘sopravvivere’, ma anche per avere successo. Quindi sapevamo già che ci sarebbe stata una prima fase di adattamento, poi, per come sono andate le cose, con i cambiamenti, emotivamente sembrava una circostanza esterna, sembravano onde. Penso che siamo stati molto bravi a stare fissi con lo sguardo nel cercare di raggiungere l’obiettivo ad ogni costo”.

Hai citato l’importanza grandissima che Bologna ha avuto nella tua vita cestistica negli anni, non solo in termini di basket.

“Le ragazze hanno creato un gruppo che aveva il piacere di stare insieme, e l’hanno trasformato nel piacere di sognare insieme. Con la giusta mentalità, il giusto approccio, il giusto cuore, la giusta gente intorno, perché anche gli ultimi due anni di Matteiplast sono stati veramente molto forti con tutto lo staff. Quindi il progetto globale è molto bello dall’inizio alla fine. Penso che ogni persona meriti l’onore che ha messo, anche perché, per dire, Matilde Dall’Aglio e Federica Nannucci, che erano le primissime che hanno iniziato a giocare insieme, quando erano più piccole, hanno portato avanti questa cosa per tantissimi anni”.

Credit: Ciamillo

Quando sei venuta in Italia hai notato le differenze tra college e Italia. Quanto sono grandi?

“Nel mondo dell’università ci sono un tempo e degli obiettivi specifici della preparazione, per portare un prodotto migliore, per 4 anni, alle giocatrici, e per inserirle dentro un sistema. Un sistema di college è molto focalizzato su quello del coach, che richiama un certo stile di gioco insieme alla preparazione. Io ho trovato, nella mia esperienza, molta enfasi sulla parte della preparazione fisica e anche sulla tattica. Avendo fatto quattro anni per scelta, già ci si aspetta di arrivare con tecnica nelle mani magari non ancora perfetta, ma a un livello dove non ci si deve focalizzare troppo su quello durante l’anno, perché lo si vuole fare sulla tattica e sulla preparazione fisica. Venendo in Europa ho trovato molta più preparazione sulle conoscenze, sulla tecnica dei gesti, dei movimenti, e anche della tattica della partita. Quindi per me era molto bello, perché avendo avuto una preparazione americana, con grande lavoro sul lato fisico, spingendo il corpo al massimo, per me si è trattato di inserire tecnica e tattica in un contesto europeo, dove crescere anche nelle letture, nel gioco di squadra. Era molto bello, perché erano due cose complementari. In pratica è stato una sorta di matrimonio tra la preparazione americana e quella europea, e mi sono trovata molto meglio come giocatrice perché avevo entrambe le esperienze“.

Al college, fra l’altro, hai giocato con Jolene Anderson. Aveva già allora quella mentalità vincente di oggi?

“Ho giocato con lei due anni, e già allora era nel posto giusto al momento giusto. Le facevo 3-4 assist a partita e gran parte erano merito suo, perché lei era sempre nel posto giusto, abbiamo sempre trovato l’intesa tra di noi. Era più facile, essendo piccole, vedere una come lei invece di vedere un canestro o un passaggio un po’ più difficile perché c’era qualcuna sulla linea. Lei ha questa capacità di capire il gioco, lo spazio, il tempo e sappiamo tutti che ha una tecnica purissima. Lei alza la mano e manda la palla dentro perché ha una capacità incredibile nelle mani. Ma la cosa che mi ha stupito di più di Jolene è che era sempre a lottare a rimbalzo, cercava sempre di rubare palla, faceva tanto, non solo la tiratrice. Lei è una giocatrice completa, fa tutto. A volte durante la partita non te ne rendi conto, poi guardi le statistiche e dici ‘wow, hai preso 8 rimbalzi, hai rubato 3 palle’. Lì capisci che è una giocatrice completa“.

In mezzo agli anni di Bologna c’è stato quello di Vigarano. Come mai?

“Perché il primo anno a Bologna l’ho giocato con la Libertas, non ancora al Progresso. Dopo quell’anno avevo il sogno di giocare in A1, quindi quando mi hanno chiamata sono stata felice perché volevo stare vicino Bologna, stavo studiando. Ero al primo anno di un corso triennale, ed era importante per me stare in quella zona. Mi son detta di voler provare, così mi sono spostata a Vigarano”.

Quando hai cominciato con il 3×3?

“Dopo l’anno di Vigarano mi hanno chiamata Federica Tognalini e Martina Capoferri, con cui ho giocato a Vigarano. Io ero in viaggio, ho girato 20 città in 8 settimane. Loro mi hanno chiamata alla fine e mi hanno detto ‘Rae, vuoi venire a giocare un torneo 3×3 a Salerno?’, ed è stato molto bello, perché lì ci ho vissuto per tre anni. Ho detto subito di sì, sono andata giù, abbiamo giocato, mi sono innamorata alla follia e dopo quell’estate è partita la storia del 3×3 in cui ho ritrovato poi il cuore pieno di gioia ogni volta che ci ho giocato”.

Prima ancora della Nazionale 3×3, Roberto Ricchini ti aveva chiamata in azzurro nella pallacanestro 5 contro 5, nel 2012.

“La mia storia con la Nazionale in realtà è iniziata nel 2010. Andavo a correre nel Wisconsin e avevo il sogno di giocare con la squadra nazionale. Ricordo di aver fatto una preghiera, di aver chiesto a Dio se fosse nella sua volontà che entrassi in Nazionale italiana. Dopo due anni, quando mi sono spostata in Italia, mi hanno chiamata e ho fatto un’estate, poi la porta si è chiusa. Ero un po’ confusa, ho riflettuto sul continuare a fare questa cosa, quindi quando, nel 2016, mi hanno invitata a giocare nella selezione del 3×3, per me è stato come il risveglio di un grande sogno”.

Quello che hanno visto i filippini, che di pallacanestro sono ottimi intenditori, è infatti tutto quello che avevi dentro in quel momento: l’amore per 3×3, Italia e pallacanestro in generale tutti insieme in un sol colpo.

Sì, c’era una bomba di amore esplosa dentro la nostra squadra e uscita sul campo da basket. In quel gruppo avevamo una chimica fuori e dentro il campo molto forte. Quando andavamo in giro le persone erano attratte dal gruppo, e hanno sempre voluto essere vicine, nei tornei in cui siamo state. A loro piaceva come giocavamo, come sorridevamo, comunque eravamo brave, e cercavamo di essere simpatiche con le persone perché semplicemente era il DNA di quel gruppo. Era un piacere fare i tornei perché c’è una passione non solo di basket, ma di chi è davanti, di fianco, intorno. E a Manila la passione ci ha travolte, per un momento”.

E sei stata MVP.

“Un torneo molto bello, quello, incredibile. Anche adesso, a due anni di distanza, se me ne parli mi brillano gli occhi, sorrido e il cuore viene su perché per un secondo ricordo quel momento della vittoria della medaglia d’oro, e dell’aver capito quello che avevamo fatto. Abbiamo dovuto superare tante sfide, e la più grande che abbiamo affrontato era dentro di noi, le nostre paure. Quando abbiamo vinto quelle, la strada si è aperta e abbiamo solo ricevuto un momento speciale che abbiamo preparato per tanti anni”.

Fra l’altro siete riuscite a far aumentare anche la popolarità del 3×3 in Italia, che già c’era, però vedere voi vincere i Mondiali l’ha fatta salire per questo sport che, in fin dei conti, è completamente diverso dal basket normale.

“Sì, per me sono due sport con lo stesso obiettivo, ma completamente diversi. I modi di giocare sono diversi, qui palleggi, fai passaggi, giochi in difesa e metti la palla dentro. Le tecniche, i fondamentali sono simili, ma le letture, gli spazi, i modi di giocare, il ritmo sono tutti completamente diversi”.

Il tuo piacere di giocare nel 3×3 è talmente grande che poi hai composto anche un inno, bello peraltro.

“È stato molto divertente per me. Era importante cercare di collaborare con la FIBA per produrre qualcosa che potesse aiutare persone fuori dal contesto del 3×3, e anche dentro, a capire per prima cosa cos’è lo sport, e poi che tutti noi possiamo sognare in grande per diventare chi crediamo di essere dentro. Con il lavoro e la mentalità vincente si può arrivare, e quando arrivi prendi qualcuno e lo aiuti a prendere la sua strada”.

La storia dell’inno è stata raccontata sul sito della FIP ed è molto lunga, perché comincia tre anni fa.

“Sì, è cominciata nel 2017”.

Avevi cominciato a registrare di getto e poi sei andata avanti.

“Dopo che l’ho scritto ho avuto l’opportunità di farlo sentire alla FIBA. Poi loro l’hanno sentito, e dopo l’abbiamo prima registrato e poi lanciato”.

Cosa pensi del rinvio delle Olimpiadi?

“All’inizio tutto questo problema del Coronavirus è capitato in maniera così veloce che era strano anche rendersi conto. Noi stavamo preparandoci da 3-4 anni per questo appuntamento. Quindi eravamo fisse su quelle date, anche per modo di prepararci, anche all’interno della stagione normale 5 contro 5, quindi quando ho sentito la notizia che erano state rinviate di un anno io ho pianto. Ho pianto tanto perché per me è stato come un rilascio di tutto quel tempo che ho dedicato per arrivare all’appuntamento, ed eravamo a 10 giorni dal dover giocare il Preolimpico. Quindi noi eravamo letteralmente lì, con un piede dentro l’acqua e non lo mettevi giù. Immagina che tu stia camminando in un deserto da tanto tempo, vedi finalmente un posto con l’acqua e hai sete, hai tanto desiderio di bere, anche solo di toccare l’acqua. Tu arrivi per toccarla e ti dicono ‘stop’. Da quel punto di vista sembrava difficile posticipare di un anno. Dall’altra parte, però, prendere una decisione come quella che ha preso il CIO, di mettere prima la salute degli atleti e del mondo, il valore degli esseri umani, ha reso molto più forte il fatto di dire grazie per questo. A livello personale stavo cercando di gestire una gamba che non era al 100%, quindi da questo punto di vista sono in qualche modo sollevata perché ho un po’ più di tempo per mettere tutto a posto con calma nel miglior modo possibile”.

Fra l’altro ci sarebbero stati comunque dei problemi, perché in India, dove si doveva giocare il Preolimpico, stavano già bloccando i voli da Italia, Giappone e Sri Lanka.

“Era incredibile perché l’evento era così vicino. Eravamo giù in Sicilia, a Palermo, il 1° marzo. E quel giorno non abbiamo giocato quella partita, ci hanno chiamate per tornare indietro e non giocare finché si poteva. L’8 marzo hanno chiuso tutto. Il 18 si sarebbe dovuto cominciare a giocare. La FIBA non aveva ancora deciso perché stava cercando di capire se era ancora possibile farcela, perché avevano già preparato tutto, quindi era emotivamente come quelle due volte lì”.

E a proposito di campionato, si può dire che ci sia stata parecchia confusione nei giorni in cui si sono poi fermate le partite.

“Penso che in generale, quando un essere umano ha abitudini che mantiene con piacere e fanno parte della vita normale, la prima risposta di solito sia un misto di frustrazione, rabbia e tristezza, perché stai cercando di digerire quello che sta accadendo. Giustamente la Federazione ha voluto fare una scelta che evitasse ogni genere di cattiva situazione. Sono convinta che anche in momenti di pausa, la Federazione ha preso la decisione migliore coinvolgendo i club e le giocatrici, ovviamente rispettando il Governo italiano. Sono grata a persone, come i leader, che devono prendere decisioni, e mi dispiace che le si siano dovute prendere in poco tempo. Per com’è andata era giusto interrompere il campionato e ricominciare la prossima stagione, perché era evidente che era diventata una cosa che tutta l’umanità sta vivendo, che tutti stiamo vivendo insieme”.

Dalle tue parole si sentono due grandi obiettivi: uno quello di restare a Bologna, l’altro di arrivare alle Olimpiadi.

“Mi piacerebbe tanto, perché penso che una società come la Virtus meriti il meglio e mi farebbe piacere continuare a sognare con quelle ragazze, se possibile. Per me sarebbe poi un sogno andare alle Olimpiadi con la maglia azzurra addosso. Sto cercando di usare questo tempo per rimettermi in piedi, fare un po’ di cose diverse, di cercare di andare verso quegli obiettivi nel miglior modo possibile. Nel frattempo mi godo la mia famiglia”.

Adesso hanno anche bloccato il ranking del 3×3, perché non può giocare nessuno, e lì sei quinta al mondo individuale.

“Siamo tutti in casa, e forse stare in famiglia è un buon modo per iniziare una nuova stagione di vita”.

La curiosità che non tanti conoscono è che tu sei D’Alie, ma dovevi essere D’Elia.

“Esatto. Hanno scambiato le lettere quando i miei bisnonni sono arrivati negli Stati Uniti, quindi il mio cognome deriva dal Sud. D’Elia”.

Ed è per quello che tu hai voluto cominciare dal Sud?

“Quando sono arrivata in Italia sono andata a giocare a Salerno, ma per caso. Non c’era un motivo per me. Sono andata lì, non sapevo niente di quel paese, ma quando vivevo là con mia sorella avevo scoperto, durante il mio primo anno, che un nostro bisnonno era della provincia di Salerno, di un paese che si chiama Calvanico. Ed era bellissimo, e sono stata anche sorpresa. Siamo andati anche in un piccolo paese a cercare i nostri parenti, ma non parlavamo italiano, quindi era molto difficile! C’erano solo i più vecchi del paese dentro un bar che avevamo trovato, e noi eravamo americane appena arrivate. Quindi stavamo cercando di comunicare con poche parole, per capire se qualcuno conosceva la nostra famiglia. Ci vorrei tornare!”

Ed è anche bello scoprire le proprie origini, la propria storia. C’è chi non pensa all’importanza di cosa c’è stato prima per costruire anche il dopo.

“Sono completamente d’accordo. Sono grandi valori, lezioni, pezzi d’identità che possiamo portare avanti”.

Sempre restando al Sud, Roberto Ricchini voleva portarti a Taranto, però quell’anno sono cambiate le regole in Federazione.

“È andata proprio così. Poi sono finita nel paese del mio bisnonno!” (ride)

Taranto poi aveva una squadra fortissima in quegli anni.

“Sì, era veramente forte. A me è piaciuto tantissimo, anche se sono stata lì solo due mesi. C’erano Michelle Greco, Megan Mahoney. Era molto divertente, un bel gruppo”.

Sempre rimanendo sul campo, non è difficile individuare in Ricchini e Angela Adamoli i più importanti tuoi allenatori.

“Io sono molto grata alle persone che sono state con me. Angela poi aveva capito che il 3×3 era uno sport nel quale potevo trovare molto piacere e molti vantaggi. La ringrazio infinitamente, è una persona stupenda, un’allenatrice bravissima e un essere umano di enorme livello”.

Tu hai anche un rapporto con la fede che è molto stretto.

“Per me Gesù è tutto. Io lo amo completamente, da quando ho 21 anni ho proprio cambiato il mio modo di vivere. Vivo le giornate molto diversamente da prima di quel momento. Mi guida, mi ama, mi porta a essere la persona che desidero essere dentro di me. Per me sempre sarà il numero uno”.

È il motivo per cui ti svegli ogni giorno dicendo: “Ok, è un giorno in cui sorridere”.

“Anche questa mattina ho aperto gli occhi e mi sentivo un po’ triste, forse perché non sono con una squadra, non sto facendo cose che normalmente faccio. Ho pregato e ho detto ‘Gesù, cos’hai per me oggi?’. È una cosa in cui ho creduto nel mio cuore, ho questo pensiero: oggi hai gioia, voglio che ti senti amata, che sai che hai un valore incredibile. Poi ho fatto un sorriso e mi sono alzata, perché ho capito che per me c’è un Dio che, anche in un momento difficile vede una giornata piena d’amore, luce, gioia. Mi da motivazione di alzarmi e iniziare a godere la vita”.

Oltre all’inno del 3×3, a livello di musiche hai fatto cose simili anche ai tempi del Progresso.

“E infatti è lì che ho iniziato. Un giorno stavo pregando, chiedendo a Gesù come potevo incoraggiare la mia squadra. Credevo, nel cuore, che dovessi scrivere una canzone. Quindi l’ho scritta, poi l’ho fatta sentire e a tutte le mie compagne è piaciuto perché credo tanto nelle cose che noi diciamo, che hanno la potenzialità di aiutarci a costruire oppure distruggere. Quindi la bocca e le parole sono molto importanti. Ho voluto aiutare a incoraggiare, ispirare il gruppo. Quando ho visto che loro hanno risposto bene, e l’ha fatto anche il tifo, ogni anno ne ho scritta una. Infatti ne ho scritti tre e poi abbiamo prodotto in studio con un amico che è produttore, poi il team video della squadra ha realizzato il video, quindi è stato molto divertente. Era un modo molto divertente per dare un ricordo alla squadra di sentirci uniti nelle cose erano forti per noi in quegli anni. Ne ho scritto anche uno per la Virtus, ma quando l’ho potuto produrre la stagione è stata cancellata, quindi spero che un giorno verrà fuori”.

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federico.rossini@oasport.it

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Foto: fiba.basketball 3×3 Europe Cup 2019

1 Commento

1 Commento

  1. OLIMPIONICO

    12 Maggio 2020 at 20:41

    Meno pubblicita’ ripugnanti. Grazie.

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