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Il Grande Torino. Dall’ascesa di una squadra che ha cambiato il calcio alla tragedia di Superga

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“Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta”. Così scrisse Indro Montanelli sulle pagine del Corriere della Sera il 7 maggio 1949, quando erano trascorsi soltanto tre giorni dalla tragedia di Superga, la sciagura aerea che tolse brutalmente la vita a una delle squadre più forti ed iconiche della storia del calcio.

La nascita del Grande Torino viene fatta comunemente risalire all’estate del 1939, in coincidenza con l’avvento dell’industriale Ferruccio Novo alla presidenza della società granata. Gli anni ’30 non erano stati esaltanti, anche perché avevano generato la perdita del primato cittadino, ceduto alla Juventus dei cinque scudetti consecutivi. L’ambizioso progetto di Novo di riportare il Torino in cima alla piramide del calcio italiano non trovò immediatamente riscontri sul rettangolo di gioco: il sesto e il settimo posto delle prime due annate non bastarono però per la resa del presidente, che continuò a lavorare duramente con la convinzione che i risultati sarebbero giunti in tempi brevi. La seconda posizione della stagione 1941-1942 fu l’emblema della notevole crescita tecnica della squadra e, con le aggiunte di due importanti primattori come Valentino Mazzola ed Ezio Loik (entrambi provenienti dal Venezia), si tradusse nel double scudetto-Coppa Italia dell’anno seguente.

Dopo la sospensione dovuta alla Seconda Guerra Mondiale, il campionato ricominciò con la stagione 1945-1946 e il Torino poté riprendere il discorso precedentemente interrotto. A causa di evidenti difficoltà logistiche la federazione decise di spezzare il torneo in due tronconi (centro-nord e centro-sud): il Torino vinse comodamente il girone dell’Alta Italia e nel raggruppamento finale diede spettacolo con vittorie roboanti e riuscì a beffare la Juventus all’ultima giornata, cucendosi sulle maglie il secondo scudetto consecutivo (il terzo della sua storia). Nella stagione 1946-1947 il dominio granata fu incontrastato: dopo un avvio ottimo, nella seconda parte del torneo Mazzola e compagni inanellarono una striscia di sedici risultati utili consecutivi (di cui ben 14 vittorie) e stroncarono la resistenza delle avversarie. Proprio nel corso del 1947, per l’esattezza l’11 maggio, accadde un fatto storico: Vittorio Pozzo, commissario tecnico della Nazionale, nella partita contro l’Ungheria schierò in campo dieci giocatori del Torino (con l’unica eccezione del portiere della Juventus Sentimenti IV), facendo registrare un primato destinato a rimanere tale.

Quello della stagione 1947-1948 fu il miglior Toro di tutti i tempi, nonché una delle migliori squadre della storia del calcio. Per comprenderne la portata basta sguinzagliare i record: massimo punteggio in classifica (65 punti in 40 gare), massimo vantaggio sulle seconde classificate (16 punti a Milan, Juve e Triestina), maggior sequenza di gare utili (21 partite di fila), 19 partite vinte su 20 al Filadelfia, maggior numero di reti segnate (ben 125), minor numero di reti subite (solo 33). Sono dati da urlo, puntuali nel descrivere la superiorità della formazione allenata da Mario Sperone. Risale a quell’anno anche una partita iconica, quella contro la Lazio, nella quale il Torino, sotto per 0-3, riuscì clamorosamente a ribaltare il risultato nel secondo tempo, rinvigorendo così il mito del quarto d’ora granata.

Nella stagione seguente (1948-1949), il campionato fu decisamente più combattuto e il Torino dovette fronteggiare la concorrenza di Inter e Milan per ottenere il quinto scudetto consecutivo. In realtà, per via della tragedia di Superga il torneo non si svolse interamente e fu la federazione a consegnare alla società granata quel tricolore che i ragazzi di Ferruccio Novo avevano comunque ipotecato con il pareggio nello scontro diretto in casa dell’Inter a quattro giornate dal termine.

L’epilogo dell’epopea granata è drammaticamente legato a quella forza oscura e indecifrabile che siamo soliti chiamare fato o destino. Il 3 maggio il Torino aveva accettato di disputare una partita amichevole a Lisbona contro il Benfica: l’idea era nata dalla reciproca simpatia tra i due capitani Francisco Ferreira e Valentino Mazzola, che, conosciutisi nel corso di un match tra Italia e Portogallo, avevano organizzato l’evento. Fu l’ultima apparizione del Grande Torino su un campo di gioco. Il giorno seguente, il trimotore FIAT G. 212 delle Avio Linee Italiane che riportava nella penisola la carovana granata dovette fare i conti con la fitta nebbia che avvolgeva il capoluogo piemontese e le colline circostanti: alla totale assenza di visibilità si aggiunse il malfunzionamento dell’altimetro e, alle ore 17.05, l’aeroplano si schiantò contro il bastione della Basilica di Superga, decretando la morte biologica di tutti coloro che erano a bordo e la morte sportiva di una delle squadre più forti di tutti i tempi.

A perdere la vita in quel maledetto 4 maggio 1949 furono in 31: i giocatori Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti e Giulio Schubert, gli allenatori Egri Erbstein e Leslie Levesley, il massaggiatore Ottavio Cortina, i dirigenti Arnaldo Agnisetta, Andrea Bonaiuti ed Ippolito Civalleri, i giornalisti Renato Casalbore, Renato Tosatti e Luigi Cavallero ed, infine, i membri dell’equipaggio Pierluigi Meroni, Celeste D’Inca, Celeste Biancardi e Antonio Pangrazi.

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antonio.lucia@oasport.it

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Foto: LaPresse

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