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Wimbledon 2018: il grande ritorno di Novak Djokovic, un trionfo da Campione. Non è RoboNole ma…

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Chiariamo subito il concetto: Novak Djokovic questo Slam se l’è meritato perché, pur essendo ancora parente piuttosto lontano del RoboNole che tutto spianava e tutti scotennava, ha fatto valere la propria forza nei momenti necessari del torneo. Non gli è servito dover dimostrare di esser più forte dell’intero pianeta; gli è bastato essere più pronto di sette giocatori, quelli che si è trovato di fronte fino alla finale, con Kevin Anderson ultimo della serie.

Se Djokovic non è ancora quello del 2011 o del 2015, certo è anche ormai definitivamente lontano da quello che non riusciva quasi a vincere partite all’inizio dell’anno, ancora con le scorie dei guai al gomito che tanto lo hanno condizionato. A nulla sembravano valere i continui cambi di guida: prima Agassi, poi Stepanek, poco hanno potuto tra una sconfitta e l’altra nella deludente campagna americana sul cemento. Poi è tornato Marian Vajda, e con lui sono ricominciati a vedersi buoni segnali: terzo turno a Madrid, semifinali a Roma, quarti al Roland Garros contro Marco Cecchinato (quello sì, un mezzo rimpianto del serbo, andato a un niente dal girare quella partita). Aveva mostrato una buona condizione al Queen’s, restando in campo per tre ore nella finale persa contro Marin Cilic. Il vero ritorno, però, l’ha confezionato ai Championships. Al terzo turno, poteva essere serio l’ostacolo Kyle Edmund, e per un set lo è stato. Poi, tre set a uno. Ai quarti, c’era Kei Nishikori. Secondo set, una chiamata, mezz’ora di nervi saltati, poi il reset e la vittoria in quattro set. In semifinale, poi, c’era Rafael Nadal. Contro l’attuale leader della classifica mondiale, Djokovic ha saputo dosare le energie per i momenti più importanti, quelli del finale del quinto set. E in parte, forse, la vittoria su Anderson è nata lì.

Kevin Anderson, dall’altra parte, può ritenersi soddisfattissimo. Ha superato Federer, ha retto oltre sei ore di maratona con Isner. L’unico neo resta il primo set e mezzo della finale, in cui non ha fatto particolarmente faticare Djokovic perché gli sono mancati il servizio (tre ace in due set, pochi per uno come lui che basa buona parte del suo gioco su quel colpo) e il dritto, spesso falloso in quell’ora di gioco. Si può dire che Anderson sia entrato in partita un po’ in ritardo rispetto a ciò che serviva, ma ciò non toglie che, quando ci è entrato, ha messo in difficoltà Djokovic ed è stato molto vicino a portarlo al quarto set. In quei momenti, il serbo ha trovato le esatte risorse a lui necessarie per sventare il pericolo. Anderson di tie-break ne aveva vinti quattro su quattro, prima di quello odierno, ma un conto sono i tie-break di altri tornei, un altro è quello con cui ti giochi una finale di Wimbledon. E se il servizio non ha tradito di nuovo il sudafricano, lo stesso non si può dire del dritto, impreciso nel momento in cui s’è visto scappar via set e incontro.

Resta una considerazione finale da fare: la finale non è stata bella. Tanti sono i motivi: Anderson che ha faticato a entrare in partita, Djokovic mai realmente al massimo del suo potenziale nonostante si sia lottato sono due. Ma molto si parla, e non a torto, del fatto che ci sono state due semifinali tanto particolari, una durata oltre sei ore e mezza e l’altra spalmata su due giorni con la prima parte da quasi tre ore e la seconda da quasi due e mezza. Molte voci si sono levate affinché il tie-break venga inserito anche nel quinto set non solo di Wimbledon, ma anche del Roland Garros e degli Australian Open, cioè gli ultimi tornei dove sopravvivono (gli US Open hanno già il tie-break al quinto da decine di anni, la Coppa Davis e le Olimpiadi si sono uniformate solo di recente). Chissà quanto se ne discuterà, se l’ITF ne parlerà in riunioni prossime (compresa quella che vorrebbe rendere la Coppa Davis un concentramento con poche emozioni e una non proporzionata quota di soldi in entrata, sulla quale è comunque prevista battaglia). Quel che è certo è che quest’anno il torneo maschile di Wimbledon ha vissuto un’annata che più particolare davvero non si può. O forse sì, chi lo sa.

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Foto: Leonard Zhukovsky / Shutterstock.com

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