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Wimbledon 2018: due partite, tanti record, 10 ore e mille emozioni con Anderson-Isner e l’interminata Nadal-Djokovic

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Non si sono ancora spenti gli echi delle urla del Centre Court ancora pieno a tarda ora. Erano sul punteggio di 9 pari del tie-break del terzo set, Rafael Nadal e Novak Djokovic, quando sono scoccate le fatidiche ore 11 di Londra. Quell’orario, per la prima volta nella storia di Wimbledon, ha causato l’interruzione di un match: più del torneo può l’accordo che intima all’All England Lawn Tennis Club di non disturbare, gentilmente, il quartiere dopo lo scoccar di quell’ora.

Abbiamo vissuto la giornata dei record, delle discussioni, delle emozioni, delle 10 ore di tennis. Abbiamo vissuto lo stoicismo di John Isner, così come abbiamo vissuto la voglia di Kevin Anderson di dimostrare che no, non è solo l’uomo che agli US Open 2015 prese a randellate Murray in un tie-break vinto 7-0, non è solo uno dei pochissimi ad aver battuto almeno una volta Federer, Nadal, Djokovic e il succitato Murray. No, Kevin Anderson ha voluto dire al mondo che è un giocatore vero, di alto livello, che non è al numero 8 del ranking mondiale per caso. Gli hanno affibbiato la nomea di uomo-sorpresa, lui che una sorpresa non è, o almeno non più. Ci voleva il suo, di braccio, per scardinare dopo oltre 100 turni di servizio tenuti le chiavi della battuta di Isner. È stato lui a prendersi la parte giusta dei record, delle 6 ore e 36 minuti, della semifinale più lunga di Wimbledon. E se l’è presa perché l’ha voluta, perché ha aspettato con pazienza il momento in cui Isner gli avrebbe potuto concedere un’opportunità, il momento in cui più del suo servizio avrebbe potuto la spossatezza fisica. Quel momento è giunto, Anderson se l’è preso, e con esso la seconda finale Slam della sua vita.

Non hanno fatto in tempo a spegnersi le emozioni di Anderson-Isner, che il tetto del Centre Court è stato chiuso con prodigiosa rapidità e il 52° capitolo della saga Nadal-Djokovic è stato mandato in campo in fretta e furia, nella speranza piuttosto vana di completare il programma entro le 23. Tre set si sono potuti giocare, ma non se li è presi tutti lo stesso tennista. Il primo l’ha vinto un Djokovic solido, il secondo l’ha vinto un Nadal che pareva essersi scrollato di dosso se non tutte, almeno una buona parte delle scorie del match con Del Potro. E poi è arrivato il terzo set, con il tie-break, con le palle corte, col set point salvato da Djokovic sul servizio avversario, con una tra le mille caratteristiche che rendono Wimbledon così uguale e diverso rispetto agli altri Slam. Sembra impossibile individuare l’esatto progredire della contesa quando si riprenderà a giocare, prima della finale femminile. Qualunque cosa succeda, se l’ateniese Anderson piange perché ha giocato tantissimo, gli spartani Djokovic e Nadal di certo non stanno a ridere.

La giornata di oggi, forse, potrebbe segnare l’epilogo prossimo della mancanza di tie-break al quinto set. Agli spettatori piace, perché è l’ultimo rimasuglio di ciò che era il tennis fino ai primi Anni ’70 (e fino ai tardi ’80 in Coppa Davis), ma sia Anderson che Isner si sono duramente scagliati contro tale sistema nelle interviste successive alla loro semifinale. La riflessione sarà necessaria, forse porterà alla fine dei set infiniti, forse no. Di certo, dovesse chiudere quell’era, i match maschili resterebbero al meglio dei cinque set, ma i femminili, che sono al meglio dei tre, finirebbero per essere come nei tornei WTA. E gli Slam sono “leggermente” più importanti.

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Foto: ATP World Tour Twitter

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