Seguici su

Ciclismo

C’era una volta… Marco Pantani e il trionfo sull’Alpe d’Huez. Quando il Pirata sconfisse Indurain (era il 1995)

Pubblicato

il

Ecco che Pantani, ecco che Pantani incomincia quella progressione che avevamo a lungo attesa“. Adriano De Zan iniziava così il racconto dei 36 minuti e 40 secondi nei quali Marco Pantani, nel 1995, scalò i 13,8 chilometri dell’Alpe d’Huez (e vinse la decima tappa di quel Tour de France). Fu la scalata più rapida di una salita tra le più famose del Tour, nonché un’ulteriore dimostrazione che in quel ciclismo la forza in salita di Pantani non ce l’aveva nessuno.

Era, quel Tour del 1995, già pressoché in mano a Miguel Indurain, che tra la fuga di Liegi con Johan Bruyneel, la crono di Seraing e l’attacco di La Plagne per non permettere ad Alex Zülle di vestire la maglia gialla aveva già accumulato un consistente vantaggio su quasi tutti i suoi inseguitori, eccettuato appunto lo svizzero.

Quando, a 13 km dalla vetta dell’Alpe d’Huez, Pantani attaccò violentemente, Indurain non rispose. Non lo fece per un semplice ragionamento che aveva già fatto ed era ben conosciuto: se Pantani scatta, seguirlo vuol dire andare incontro a fine certa delle proprie speranze. In più, c’era un’altra ragione: Pantani era abbastanza lontano in classifica da non preoccuparlo. Fu così che il romagnolo guadagnò rapidamente secondi su secondi, senza smettere di scattare in continuazione.

Davanti a lui c’era un gruppo di diversi ciclisti fuggiti qualche chilometro prima, sul Col de la Croix de Fer, tra cui Laurent Jalabert, Richard Virenque ed Ivan Gotti, allora un bergamasco di belle speranze e in seguito vincitore di due Giri d’Italia. Pantani li andò a prendere tutti, velocemente, in modo inarrestabile. Intuendo la situazione, Gotti provò a partire, ma si trovò presto il connazionale di fianco. Tentò di seguirlo e ne pagò le conseguenze (oltre ad ammettere, più tardi, l’errore). Mentre Alfredo Martini, dai microfoni della Rai, si sperticava in lodi di ogni genere su Pantani, si crearono tre corse in una: quella di Pantani che, ormai solo, non aveva più problemi a controllare la corsa; quella dei suoi inseguitori, tutti destinati a essere ripresi dal gruppo della maglia gialla; quella di Indurain, che a un certo punto si mosse.

E in quel Tour, quando si muoveva il Navarro, erano dolori. L’aveva fatto a Liegi e s’era tolto di mezzo il gruppo, guadagnando 50 secondi; l’aveva fatto sulla salita verso La Plagne perché Zülle aveva oltre 5 minuti di vantaggio e s’era tolto di ruota chiunque, Tonkov, Pantani e Gotti compresi (arrivati due minuti dopo di lui). Questa volta, l’obiettivo dell’iberico era semplicemente quello di togliere dalla contesa eventuali pericolosi avversari di classifica, nel remoto caso in cui essi, già molto lontani, avessero deciso di attaccare. Esito della storia: allo stile composto eppur perfido dello spagnolo ebbero a resistere solo in due, Zülle e Bjarne Riis, che furono con lui fino all’arrivo.

E fu proprio sul traguardo, anzi all’ultima curva, che per poco non capitò il fattaccio: prendendola a gran velocità, per poco Pantani non sbagliò strada. Riprese subito quella corretta, comunque, e alzò il braccio poco dopo in segno di vittoria. A 1’24” giunsero Indurain e Zülle, perse due secondi ulteriori Riis, quinto fu Laurent Madouas, un discreto corridore francese che fece quell’anno il suo miglior Tour. Ivan Gotti chiuse nono a 2’50” con Virenque, ma avrebbe potuto terminare nei primi cinque. Non lo fece perché sbagliò in modo peggiore di Pantani, finendo per terra.

L’uomo che veniva da Cesenatico, quel giorno, rafforzò la propria posizione di leader della classifica dei giovani, che mantenne fino alla fine; il secondo, terzo e quarto di quella tappa furono il primo, secondo e terzo di quel Tour.

Miguel Indurain si sarebbe ritirato l’anno dopo; Marco Pantani avrebbe poi rivinto sull’Alpe nel 1997.

Era un altro ciclismo (e sembra strano dirlo ad appena 23 anni di distanza), di cui si sarebbero poi scoperte tante cose, alcune positive, altre molto meno. Di quel 12 luglio 1995, rimangono memorie belle. Quelle di un Tour che non aveva ancora vissuto il suo momento più buio, quattro giorni dopo: la terribile fine di Fabio Casartelli nella discesa del Portet d’Aspet.





CLICCA QUI PER TUTTI GLI ARTICOLI SUL CICLISMO

Clicca qui per mettere “Mi piace” alla nostra pagina Facebook
Clicca qui per iscriverti al nostro gruppo
Clicca qui per seguirci su Twitter

Clicca per commentare

Tu cosa ne pensi?

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *