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Passaporti negati agli sportivi: non c’è solo Israele

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Negli ultimi tempi sta tenendo particolarmente banco la vicenda dei visti che alcuni Paesi avrebbero negato agli sportivi israeliani in occasione di alcune competizioni internazionali: l’importanza di alcuni di questi atleti, ma anche il peso politico di questo Paese e la campagna mediatica che fa da seguito, hanno fatto sì che molti ne parlassero come uno scandalo, dimenticando però tanti episodi simili che hanno visto coinvolti sportivi di altre cittadinanze, e che le stesse autorità israeliane praticano spesso questo tipo di politiche nei confronti degli sportivi palestinesi.

Andiamo con ordine: alcuni dei casi più recenti riguardano la vela, in particolare i Campionati Mondiali della classe RS:X in ‘Oman. In questo caso, dopo una lunga serie di tira e molla, il Paese organizzatore ha negato i visti agli atleti israeliani, con la sola Maayan Davidovich che è riuscita ad entrare grazie al passaporto austriaco (molti israeliani, infatti, hanno un doppio passaporto – tema che meriterebbe un articolo a parte, ma che esulerebbe fin troppo dall’ambito sportivo). La plurimedagliata iridata ha così preso parte ai Mondiali, ma senza poter esporre la bandiera israeliana, ufficialmente iscritta come rappresentate della ISAF, la federazione internazionale. Un caso simile si è verificato in questi giorni riguardo i Campionati Mondiali Youth, previsti in Malaysia: in questo caso, i velisti Yoav Omer e Noy Driha, assieme all’allenatore Meir Yaniv, hanno rinunciato alla partecipazione in quanto il Paese ospitante, pur avendo concesso i visti, non avrebbe ammesso l’esposizione della bandiera israeliana sulle imbarcazioni.

Analizziamo dunque queste situazioni. I due Paesi in questione, ‘Oman e Malaysia, fanno parte dei trentadue membri dell’ONU che non riconoscono Israele come stato indipendente. Di fatto, dunque, rientra nel diritto del Ministero degli Esteri di questi Paesi (l’organo generalmente preposto a concedere i visti, attraverso i propri consolati e le proprie ambasciate) il rifiutare l’ingresso ad un cittadino israeliano, in quanto sprovvisto di passaporto valido. In molti casi, però, sono state fatte eccezioni proprio per garantire agli sportivi la partecipazione alle competizioni, ma, come abbiamo visto nel caso dei Mondiali Youth, non è bastato per accontentare gli israeliani. Cosa si potrebbe fare a questo punto? Nessun organismo può obbligare un Paese sovrano a concedere visti o ad esporre la bandiera di un Paese terzo non riconosciuto. Il buonsenso suggerisce in effetti di garantire la partecipazione agli sportivi, ma se il vero problema fosse questo gli israeliani avrebbero potuto tranquillamente partecipare alla competizione in Malaysia senza bandiera.

Il problema di base è un altro, ed è strettamente politico da entrambe le parti: i Paesi che non riconoscono Israele non possono permettere che la bandiera con la Stella di David sventoli sul proprio territorio e nelle proprie acque territoriali, mentre Israele vuole utilizzare le competizioni sportive come mezzo di affermare la propria esistenza de facto, anche laddove manchi quella de iure. Ecco, dunque, che chi risponde con un ingenuo “fuori la politica dallo sport” non considera che anche concedere agli israeliani di gareggiare esponendo la propria bandiera sarebbe un atto politico: un atto politico decisamente a favore di Israele.

Viene poi da chiedersi perché i casi riguardanti gli israeliani vengano così mediatizzati rispetto ad altri, compresi alcuni che si sono risolti con la possibilità per gli atleti di partecipare regolarmente alle competizioni, come nel caso del Grand Slam di judo ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, dove i judoka israeliani hanno alla fine partecipato come rappresentanti della federazione internazionale. Ricordiamo, ad esempio, il caso degli atleti cubani che, tra il 2013 ed il 2014, si sono visti negare numerosi visti per gli Stati Uniti: nel 2013 in occasione della Diamond League di Eugene, quando non poterono partecipare le plurimedagliate Yipsi Moreno e Yargelis Savigne, e nell’anno successivo, quando furono negati alcuni visti per i Mondiali Youth, compreso quello del grande Alberto Juantorena, presidente della federazione cubana di atletica. E ancora potremmo ricordare che, proprio quest’anno, il Canada ha negato i visti alla nazionale ugandese di canoa kayak, la Spagna ha negato i visti ad alcuni ciclisti eritrei per i Mondiali di Ponferrada, gli Stati Uniti hanno negato il visto al presidente della Federazione Russa di lotta per i Mondiali di Las Vegas e l’India ha negato i visti agli atleti pakistani per i Campionati Asiatici di lotta Under 17.

Diverso, ma comunque da ricordare, il caso del Kosovo, che a causa del tardivo riconoscimento internazionale, a lungo non ha potuto prendere parte a nessuna competizione sportiva: i suoi atleti, dunque, erano costretti a gareggiare per l’Albania, che li agevolava nell’ottenere il passaporto, o per le varie federazioni internazionali. Celebre è il caso della judoka Majlinda Kelmendi, che partecipò ai Giochi Olimpici per l’Albania e poi fu a lungo considerata come rappresentante dell’IJF (International Judo Federation).

Tornando in Israele, va poi ricordato che anche gli stessi israeliani non sono esenti dall’aver provocato casi del genere. In occasione della prima partita internazionale della nazionale di calcio palestinese, infatti, Israele negò la possibilità di viaggiare da Gaza alla Cisgiordania, sede dell’incontro, al capitano della squadra. Altri giocatori, invece, impiegarono due giorni per raggiungere la città di Al Ram, dove si sarebbe dovuta tenere la partita, da altre città della Cisgiordania. Non possiamo poi non ricordare, seppur non facente parte del mondo sportivo, il visto negato da Israele lo scorso aprile al Ministro sudafricano dell’Educazione, Blade Nzimande, “reo” di voler visitare i territori palestinesi. Le autorità palestinesi, del resto, hanno fatto notare come gli israeliani non possano pretendere di essere accolti nei Paesi arabi e musulmani mentre gli sportivi palestinesi sono continuamente sottoposti a vessazioni e discriminazioni, fatto che naturalmente non fa altro che rafforzare il fronte dei sostenitori del boicottaggio sportivo contro lo stato sionista.

In conclusione, crediamo che la soluzione dettata dal buonsenso sia solamente una: gli sportivi devono avere la possibilità di gareggiare in qualsiasi competizione organizzata in qualsiasi Paese del mondo, ma, se vogliono esercitare questo diritto, devono partecipare a titolo individuale nelle competizioni organizzate in Paesi terzi che non riconoscono ufficialmente il proprio Paese. Un ulteriore passo avanti, strettamente diplomatico, si potrebbe fare facendo sì che i Paesi stipulino trattati bilaterali che concedano la partecipazione dei rispettivi sportivi alle competizioni che si tengono nel territorio dell’altra parte contraente: ma questo spetta unicamente ai governi dei Paesi interessati. Per quanto riguarda il caso specifico di Israele, poi, dovrebbe essere Tel Aviv a modificare le proprie politiche nei confronti degli sportivi palestinesi, altrimenti sarà molto difficile che i Paesi musulmani facciano concessioni in questo senso.

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Immagine: Maayan Davidovich (pagina Facebook)

giulio.chinappi@oasport.it

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