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Sci alpino, Mondiali 2015: una settimana deludente per gli azzurri
Male, male, male. Due terzi dei Mondiali di sci alpino 2015 sono in archivio e l’Italia non ha ancora mosso il medagliere. Lo hanno fatto nazioni dipendenti da una sola atleta (e che atleta) vedi Slovenia, lo hanno fatto complessivamente otto paesi: non l’Italia, pure forte del suo secondo posto nella classifica per nazioni di Coppa del Mondo.
Inutile negarlo: sin qui, le carte più importanti arrivavano dalla velocità maschile. Da Dominik Paris in particolare, perché la stagione di Christof Innerhofer sembrava e sembra troppo balorda per regalare grandi acuti e l’infortunio di Peter Fill ha fatto il resto; dal Werner Heel degli ultimi mesi era lecito attendersi molto di più ma certamente non un podio, mentre su Matteo Marsaglia veniva in mente quella straordinaria vittoria in superg, proprio su queste nevi, che però è andato ben lontano dal bissare. In discesa, in particolare, si è toccato un record negativo come risultato di singoli e di squadra che trova eguali solo molti, troppi decenni fa.
Si può discutere a lungo su cosa non ha funzionato: poca adattabilità alle condizioni meteo e di conseguenza di fondo nevoso estremamente ballerine, in alcuni casi errori di interpretazione del tracciato, più in generale, purtroppo, l’impressione di averci capito ben poco della fin lì amata Birds of Prey.
Su una cosa, però, bisogna essere altrettanto chiari. Non può un Mondiale maledetto offuscare anni di lavoro e di successi, medaglie arrivate regolarmente nei precedenti tre grandi eventi, classiche immortali più volte vinte: chissà, magari da qualche divano d’Italia si sarà pure levato qualche grido poco generoso nei confronti dei tecnici. Tuttavia quei tecnici, Gianluca Rulfi in primis e poi Alberto Ghidoni, Christian Corradino, Alberto Senigagliesi, sono gli artefici e i mentori di una squadra che ha fatto molto più dell’ItalJet di fine anni Novanta, loro gli allenatori che hanno portato un settore al suo massimo storico salvo singole eccezioni del passato (vedi Zeno Colò o Herbert Plank). Inoltre questi stessi allenatori, così come Paris, non hanno cercato scuse: “Se si scia male, non si vince” e “Le condizioni non sono alibi: siamo noi a dover migliorare la nostra capacità di adattamento“. Con sfumature diverse, questi sono stati i leit-motiv comunicati dai ragazzi e dallo staff della squadra di velocità: un’assunzione di responsabilità sincera che – chi segue svariate discipline dovrebbe ben saperlo – capita molto raramente nel mondo dello sport in Italia. Quindi, dimenticatevi di questo Mondiale e ripartite perché ci sono ancora gare fondamentali in stagioni e, potenzialmente, due coppette di specialità nelle quali si può conseguire un risultato straordinario.
Nel femminile il giudizio non può essere così drastico, perché si partiva da presupposti ben diversi: una vittoria, certo, ottenuta da Elena Fanchini che però non è mai stata troppo regolare nelle sue prestazioni, e un podio firmato da quella Dada Merighetti prima di lasciarci il viso contro una porta delle Tofane. Discesa e supergigante, al di là delle performance azzurre, hanno tuttavia dato l’impressione di essere gare chiuse: le varie Maze, Vonn, Gut e Fenninger hanno cannibalizzato le rivali come se fossero di un altro pianeta, impedendo qualsiasi inserimento. Dunque, se anche le nostre ragazze avessero sciato senza errori, le medaglie non sarebbero mancate.
Ovviamente, il Mondiale di Elena Fanchini è stato estremamente deludente al pari di quello della sfortunata Hanna Schnarf, tuttavia proprio nella libera Dada Merighetti ha sciato di grinta e cuore sino a cogliere un ottavo posto che, date le condizioni sue e generali, non può esser etichettato come un risultato negativo. In superg, il decimo posto di Elena Curtoni è altrettanto un buon risultato, anche se la valtellinese, al pari di una Francesca Marsaglia che si è riscattata nella combinata alpina, deve migliorare nei tratti di scorrimento per non gettare via piazzamenti ancora più brillanti perdendo decimi su decimi quando le curve cedono spazio ai rettilinei. Non includiamo in questo discorso Nadia Fanchini: la camuna certamente si sarebbe aspettata di più dal supergigante, tuttavia la sua vera gara è quella di domani.
Infine, un’ultima postilla: se c’è una critica da muovere all’intero sistema sciistico italiano, è quella di considerare con poca attenzione il team event e soprattutto le combinate. Vanno via nove medaglie in queste discipline, peraltro la stessa gara a squadre potrebbe diventare olimpica: sebbene non siano certo agevolate da un calendario che durante la stagione le costringe ad un ruolo di contorno, diventano appunto protagoniste dei grandi eventi. Se nel team event troppo spesso si ha l’impressione di una gara scartata a prescindere dai vertici azzurri, con scelte di formazione almeno opinabili (senza nulla togliere agli atleti in pista e al loro impegno), soprattutto in combinata ci si può preparare meglio, anche se mischiare la libera e i pali snodati, non a caso le due specialità opposte, non è compito facile: non significa, questo, dover creare polivalenti forzati a tutti i costi, perché è meglio uno slalomista molto forte in slalom che uno incapace di eccellere in tutte e cinque le discipline. Ma si può e si deve fare di più. Dietro ai tre podi conquistati nell’allora supercombinata da Peter Fill e Christof Innerhofer tra i Mondiali di Garmisch e le Olimpiadi di Sochi non c’è il caso: c’è il lavoro, guidato da un Claudio Ravetto esiliato per ragioni extrasportive dal mondo azzurro dello sci e finalizzato da Max Carca, tecnico alessandrino ora impegnato con la nazionale canadese (chissà chi ha vinto l’argento ieri sera…). Dal lavoro, persino in queste discipline scomode, bisogna ripartire, conservando comunque l’auspicio che la parte conclusiva della rassegna iridata regali alla squadra quelle soddisfazioni sin qui mancate.
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foto: Fisi
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marco.regazzoni@olimpiazzurra.com
