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Mondiali di ciclismo: i percorsi leggendari e le corse che hanno fatto storia
I Mondiali di ciclismo su strada sono molto più di una semplice gara: ogni edizione è un capitolo di storia sportiva, disputato su percorsi unici che diventano i grandi teatri delle imprese dei campioni del ciclismo. Dalle salite massacranti delle Alpi francesi alle veloci volate nelle città, il tracciato del Mondiale ha spesso determinato il tipo di corridore destinato a indossare la maglia iridata.
Ripercorriamo alcuni dei percorsi più leggendari e le corse memorabili – tra drammaticità, capolavori tecnici e imprese epiche – che hanno segnato la storia di questa competizione. Senza dimenticare gli aneddoti che riguardano i ciclisti italiani e uno sguardo a come i differenti tipi di tracciato (per scalatori, passisti, uomini da classiche o velocisti) hanno influenzato i nomi iscritti nell’albo d’oro dei Mondiali di ciclismo.
Sallanches 1980: il circuito più duro di sempre nelle Alpi francesi
Nel 1980 il Mondiale si corse a Sallanches, sulle Prealpi francesi, su un circuito considerato all’unanimità il più duro di tutti i tempi. I corridori dovettero affrontare 20 giri e 20 ascensioni della ripida Côte de Domancy, per un totale di 268 km e oltre 6.000 metri di dislivello. Il grande Jacques Anquetil, alla vigilia, profetizzò che solo 15 corridori avrebbero tagliato il traguardo, tanta era la selettività del percorso. E così fu: la gara diventò un massacro, con appena quindici arrivati su oltre cento partenti.
Sul circuito infernale di Sallanches emerse Bernard Hinault, uno dei pochi campioni in grado di domare un simile tracciato. Nonostante problemi fisici nelle settimane precedenti, il “Tasso” francese attaccò per operare subito la selezione decisiva, restando negli ultimi giri con soli quattro avversari. A due tornate dalla fine Hinault era già da solo al comando: l’italiano Baronchelli si arrese per ultimo, e il fuoriclasse bretone volò verso l’oro con oltre un minuto di vantaggio. Sul podio, alle sue spalle, arrivarono staccatissimi l’italiano Gianbattista Baronchelli (argento a +1’01”) e lo spagnolo Juan Fernández (bronzo a +4’25”). Hinault stesso definì quella di Sallanches “la corsa della sua vita”, consapevole che solo un grimpeur di altissimo calibro poteva trionfare su un percorso simile.
Il mito di Sallanches 1980 resta un riferimento ogni volta che si disegna un mondiale per scalatori: quel giorno fu necessario un fuoriclasse completo come Hinault per conquistare la maglia iridata sul “percorso più duro di sempre”, in una gara dove addirittura solo quindici corridori conclusero la prova.
Imola 1968: Adorni e una fuga da record sul circuito di casa
Un altro tracciato passato alla storia è quello di Imola 1968. Su un percorso disegnato attorno all’Autodromo Ferrari, il romagnolo Vittorio Adorni realizzò un’impresa leggendaria. Nella gara in linea professionisti (277 km) Adorni attaccò a circa 90 km dall’arrivo, staccando tutti i compagni di fuga e involandosi in solitaria. Il suo vantaggio crebbe chilometro dopo chilometro, mentre dietro gli inseguitori non riuscivano a collaborare. Sul traguardo di Imola, Adorni arrivò con 9 minuti e 50 secondi di margine sul secondo (il belga Van Springel) – che rimane tutt’oggi il più ampio distacco mai inflitto al secondo classificato nella storia iridata. Solo 19 corridori su 84 terminarono quella prova durissima, dominata dall’Italia che piazzò cinque uomini nei primi sei posti.
La fuga trionfale di Adorni, sotto gli occhi del pubblico di casa, divenne subito leggenda. Mai un campione del mondo aveva vinto con un abisso simile: quasi dieci minuti di vantaggio, un’eternità nel ciclismo. Il tracciato di Imola, ondulato ma non proibitivo, fu interpretato alla perfezione dal passista Adorni, capace di mantenere un’andatura impossibile per gli altri. Questa vittoria consegnò all’Italia un titolo iridato memorabile e dimostrò come anche un passista di gran fondo potesse diventare campione del mondo grazie a un’azione coraggiosa e alla tenuta su un circuito filante. Ancora oggi, parlando di Imola ’68, si ricorda l’“impresa mondiale” di Adorni, entrata di diritto nella storia del ciclismo.
(Curiosità: Imola ha ospitato i Mondiali anche nel 2020, su un percorso collinare durissimo scelto last-minute. In quell’edizione – senza pubblico a causa della pandemia – trionfò il francese Julian Alaphilippe in solitaria sull’erta di Gallisterna, mentre tra le donne la neerlandese Anna van der Breggen si impose con un attacco da lontano, completando uno storico doppio cronometro+prova in linea nella stessa settimana.)
Goodwood 1982: la “fucilata” di Saronni sul tracciato dei velocisti
Non sempre i percorsi più leggendari coincidono con dislivelli estremi. Talvolta a fare la storia è l’epilogo iconico di una corsa. È il caso di Goodwood 1982 in Gran Bretagna, circuito ondulato ma adatto ai velocisti, ricordato per la famosa “fucilata di Goodwood”. Su un tracciato di 275 km nel Sussex, con 18 tornate e lo strappo di Kennel Hill come principale difficoltà, l’Italia corse in modo impeccabile per favorire il suo uomo più veloce, Giuseppe Saronni.
La gara si risolse in un gruppo ristretto di una trentina di unità nell’ultimo giro. Sull’ultima salita si susseguirono attacchi: all’inizio dell’ascesa finale lo spagnolo Lejarreta provò l’allungo, poi fu raggiunto dall’americano Boyer, quindi dall’irlandese Sean Kelly, mentre Saronni rimase coperto in attesa. A 300 metri dallo scollinamento dell’ultima salita, in cima a Kennel Hill, l’americano Greg LeMond (compagno di squadra di Boyer in quegli anni) scattò per riprendere Boyer, scatenando la reazione di Saronni. L’azzurro partì in contropiede con un’accelerazione brutale negli ultimi 200 metri di salita, lasciando tutti sul posto. Fu un colpo secco, potentissimo: i cronisti italiani la battezzarono subito la “fucilata di Goodwood”. Nessuno riuscì a tenere la ruota di Saronni, che scollinò con qualche secondo di margine e piombò sul traguardo in solitaria. Dietro, LeMond si accontentò dell’argento e Kelly del bronzo, entrambi a 5” dal vincitore.
Quella di Goodwood fu un’azione fulminea, uno sprint in salita passato alla storia per la sua potenza e astuzia tattica. Saronni dimostrò come anche un percorso non proibitivo possa diventare teatro di un’impresa memorabile, se interpretato con coraggio. Da allora la “fucilata di Goodwood” è entrata nel lessico del ciclismo per indicare uno scatto risolutivo. Per l’Italia fu un altro trionfo mondiale, ottenuto in terra britannica su un circuito adatto ai finisseur veloci. Saronni consacrò così il ruolo dei velocisti resistenti, capaci di domare percorsi ondulati e di colpire al momento giusto.
Ronse 1988: finale drammatico in Belgio, Fondriest iridato a sorpresa
Se Goodwood fu il trionfo della potenza, l’edizione di Ronse 1988 in Belgio è ricordata per un finale a dir poco drammatico. Il circuito delle Fiandre (273 km con continui saliscendi) pareva fatto su misura per i beniamini di casa, e infatti in volata si presentarono Claude Criquielion, idolo belga, l’italiano Maurizio Fondriest e il canadese Steve Bauer. Negli ultimi 200 metri accadde l’imprevedibile: Criquielion cercò spazio per superare Bauer sulla destra, vicino alle transenne, ma Bauer gli chiuse la traiettoria. I due si toccarono e il belga finì violentemente contro le barriere, rovinando a terra a pochi passi dal traguardo. Bauer, rallentato dal contatto, fu superato dall’incredulo Fondriest, che si ritrovò improvvisamente solo e andò a vincere il suo primo titolo mondiale approfittando dell’incidente.
La scena fu shockante per il pubblico di Ronse: Criquielion a terra disperato, Bauer che taglia il traguardo secondo ma viene subito squalificato per volata scorretta, e Fondriest che diventa campione del mondo quasi senza rendersi conto. Il giovanissimo italiano, appena 23enne, fu il più sorpreso di tutti dal modo in cui arrivò l’oro. La vicenda non finì lì: Criquielion portò Bauer in tribunale accusandolo di averlo buttato contro le transenne, ma anni dopo la causa legale diede ragione al canadese. Resta però nella memoria collettiva quell’attimo di follia sportiva: un Mondiale letteralmente gettato via da Criquielion a pochi metri dalla gloria, e consegnato nelle mani di Fondriest, che da outsider divenne campione del mondo tra i fischi (per Bauer) e lo sgomento generale.
Ronse ’88 viene spesso citato come esempio di come la drammaticità possa segnare la storia di un Mondiale. Un percorso adatto ai corridori da classiche, con uno sprint ristretto in lieve salita sul Kluisberg, vide il suo esito ribaltato non da una difficoltà tecnica del tracciato, ma da un errore umano e dalla tensione agonistica. Per l’Italia fu comunque un titolo mondiale – il secondo consecutivo dopo quello di Argentin nel 1986 – sebbene ottenuto nel modo più rocambolesco possibile. Fondriest da allora è ricordato anche per la freddezza con cui seppe sfruttare l’occasione nel caos, regalando all’Italia un oro insperato in terra belga.
Verona 1999 e 2004: l’Arena romana e il tris iridato di Freire
L’Italia ha ospitato diverse edizioni memorabili dei Mondiali, e Verona spicca tra queste per il suo scenario suggestivo e le vicende sportive. Il circuito di Verona, con la salita delle Torricelle da ripetere ogni giro, è un tracciato misto: abbastanza impegnativo da stancare i corridori, ma non proibitivo, tanto da lasciare spesso in palio la vittoria a un gruppo selezionato di finisseur o velocisti resistenti. Ciò è avvenuto sia nel 1999 sia nel 2004, due edizioni entrambe concluse all’interno della storica Arena di Verona, anfiteatro romano trasformato per un giorno in maestoso velodromo a cielo aperto.
Nel Mondiale Verona 1999 accadde uno dei colpi di scena più clamorosi della storia recente. Il favorito era il tedesco Jan Ullrich, che infatti promosse l’attacco decisivo sull’ultima salita delle Torricelle. Si formò al comando un drappello di circa dieci corridori, con big del calibro di Ullrich, Vandenbroucke (pur infortunato), lo svizzero Camenzind campione uscente e l’italiano Casagrande. Sembrava esclusa dalla lotta la Spagna, che però aveva in quel gruppetto un giovane sconosciuto: Óscar Freire, 23 anni, praticamente esordiente ad alti livelli e selezionato a sorpresa per i Mondiali di Verona. Ritenuto un velocista puro, Freire sulla carta non avrebbe dovuto reggere le ripetute salite del circuito, e invece era ancora lì con i migliori. A 1 km dal traguardo nessuno lo marcava: Freire, ultimo della fila, colse l’attimo e partì in un attacco improvviso a circa 500 metri dall’arrivo, anticipando la volata. I più esperti esitavano a reagire, marcandosi a vicenda, e lo spagnolo poté schizzare via verso la vittoria in solitaria, incredulo. Fu il primo titolo mondiale per Óscar Freire, arrivato praticamente da sconosciuto – aveva solo una vittoria da professionista fino ad allora – sul palcoscenico affascinante dell’Arena di Verona.
Cinque anni dopo, nel Mondiale Verona 2004, Freire tornò da protagonista assoluto. Nel frattempo era diventato uno dei corridori più forti al mondo nelle corse di un giorno, tant’è che a Verona centrò il suo terzo titolo iridato in carriera (dopo 1999 e 2001), raggiungendo leggende come Binda, Merckx e Van Steenbergen al record di tre maglie iridate. L’epilogo del 2004 fu una volata ristretta, ancora una volta nell’ovale unico dell’Arena: Freire regolò in uno sprint serratissimo il tedesco Erik Zabel, mentre l’azzurro Luca Paolini conquistò il bronzo. Il circuito veronese delle Torricelle si confermò dunque terreno favorevole ai corridori veloci ma resistenti in salita: Freire, con le sue doti da scattista e fondista insieme, impersonava proprio quel mix. Per l’Italia ci fu la consolazione di una medaglia sul podio (Paolini) ma l’oro sfuggì in casa. Resta però memorabile l’immagine dei corridori che entrano nell’Arena romana gremita: Verona ha offerto un teatro unico al mondo, degno finale di due corse che hanno fatto storia – una per la sorpresa assoluta del 1999, l’altra per la consacrazione di un campione nel 2004.
Firenze 2013: pioggia, epica e un sogno svanito sulle colline toscane
Un capitolo a parte merita il Mondiale di Firenze 2013, ricordato come uno dei più epici e drammatici dell’era moderna, complice un meteo proibitivo. Il percorso, 272 km snodati tra le colline toscane (con le salite di Fiesole e Via Salviati da ripetere più volte), era già di suo impegnativo. Ma fu il maltempo a trasformarlo in un calvario: una pioggia torrenziale batté sui corridori per quasi tutta la gara, rendendo ogni discesa insidiosissima e causando decine di cadute. “Un Mondiale d’altri tempi, veramente tosto. Un percorso impegnativo che il clima rende durissimo: 272 km… e la pioggia che ribalta tutto”, scrissero le cronache, descrivendo i corridori come birilli abbattuti uno dopo l’altro dal maltempo. Basti pensare che su oltre 200 partenti, meno di 50 arrivarono al traguardo.
In questo scenario da tregenda, l’Italia sognò l’impresa con Vincenzo Nibali. Lo “Squalo” fu protagonista di una gara coraggiosa: nonostante una caduta sul bagnato a 70 km dal termine, riuscì a rialzarsi e rientrare sui primi dopo un inseguimento furioso. Sull’ultima salita di Fiesole attaccò con grinta, infiammando il pubblico azzurro sotto il diluvio. Si formò al comando un gruppetto con Nibali, i temibili spagnoli Joaquim “Purito” Rodriguez e Alejandro Valverde, e il portoghese Rui Costa. In cima all’ultimo strappo (il muro di Via Salviati) Nibali pagò lo sforzo e rimase leggermente attardato, mentre Purito Rodriguez volava in discesa verso l’arrivo. Valverde, invece di aiutare il compagno spagnolo, restò passivo marcando Nibali; Rui Costa ne approfittò, saltò sulla ruota di Rodriguez nell’ultimo km e lo beffò allo sprint.
Fu un finale amarissimo per Rodriguez (argento) e per Nibali, quarto ai piedi del podio, mentre Rui Costa regalò al Portogallo un inatteso titolo mondiale. Per l’Italia restò l’onore delle armi: “Ho dato tutto, peccato, la condizione era ottima” dirà Nibali, applaudito come un eroe sotto l’acqua. Firenze 2013 consegnò alla storia un Mondiale estremo, paragonato per durezza a quelli di un tempo: il connubio tra percorso tecnico (le rampe di Fiesole e Salviati) e maltempo ne fece una corsa monumentale. L’immagine dei corridori infangati e stremati sul traguardo, con il vincitore quasi incredulo, resta uno dei simboli del ciclismo epico degli anni 2000. E agli italiani rimase il rammarico di un sogno iridato sfiorato sul suolo amico, in una giornata che avrebbe meritato un finale diverso.
(Da ricordare, sempre in quell’edizione, la prova femminile sullo stesso bagnatissimo circuito: fu dominio dell’olandese Marianne Vos, già leggenda delle due ruote, che conquistò il terzo titolo mondiale consecutivo in linea. Le azzurre sfiorarono il podio con Rossella Ratto, quarta. Anche tra le cicliste più famose, dunque, Firenze 2013 viene ricordata come una gara durissima e selettiva, degna di un Mondiale passato alla storia.)
Valkenburg (Limburgo): il Cauberg e le imprese dei cacciatori di classiche
Alcuni luoghi sono stati scenario di più edizioni iridate, diventando veri e propri santuari del Mondiale. Valkenburg, nei Paesi Bassi, è uno di questi. Il circuito del Limburgo con l’ascesa del Cauberg – la celebre collina posta nei chilometri finali – ha ospitato diverse volte i Campionati del Mondo (nel 1938, 1948, 1979, 1998 e 2012 tra le edizioni principali). Si tratta di un percorso collinare breve ma intenso, ideale per gli uomini da classiche e i finisseur esplosivi. Il Cauberg, con pendenze attorno al 8-12%, non è una montagna ma affrontato ripetutamente diventa il giudice implacabile della corsa, favorendo scatti e selezione nei giri conclusivi.
Tra le edizioni memorabili a Valkenburg spicca quella del 2012. Il Mondiale tornava sul Cauberg 14 anni dopo il 1998, e a trionfare fu uno degli specialisti delle classiche del nord: il belga Philippe Gilbert. Gilbert, grande favorito, attaccò proprio sul Cauberg all’ultimo giro con la sua caratteristica progressione da puncher: nessuno riuscì a tenerlo e andò a vincere in solitaria, regalando al Belgio un titolo che mancava da molti anni. Quella di Gilbert fu l’azione perfetta sul terreno ideale per lui, a conferma che il profilo del Cauberg premia corridori esplosivi e potenti. Non a caso, negli anni, su queste strade hanno vinto anche Oscar Camenzind (1998) e Jan Raas (1979), entrambi corridori capaci di attacchi secchi sulle rampe finali. E lo stesso Cauberg ha spesso visto protagonisti azzurri con caratteristiche da classica: nel 2012 Matteo Trentin sfiorò l’impresa (argento dietro Gilbert), mentre già nel 1979 Francesco Moser ottenne un bronzo su questo circuito.
Valkenburg è un esempio di come il percorso influenzi la tipologia di vincitore: qui non vedremo mai trionfare un velocista puro, né un grimpeur leggero, ma piuttosto un corridore completo, scattista e resistente – il classico “uomo da Liegi-Bastogne-Liegi” o Amstel Gold Race. Anche il tifo appassionato olandese sul Cauberg fa parte del fascino: migliaia di tifosi a incitare in quella curva ripida hanno creato un’atmosfera memorabile.
(In campo femminile, va ricordato che proprio a Valkenburg 2012 la fuoriclasse Marianne Vos vinse uno dei suoi Mondiali più belli, attaccando sul Cauberg per distanziare le avversarie. Insomma Valkenburg e il Cauberg rimangono un “teatro” privilegiato dei Mondiali, dove i cacciatori di classiche scrivono spesso il copione vincente.)
Ponferrada 2014: un tracciato completo e il colpo di Kwiatkowski
L’ultimo esempio di percorso iconico della nostra rassegna è Ponferrada 2014, in Spagna. Un circuito meno noto al grande pubblico prima di allora, ma che ha lasciato un ricordo indelebile grazie alla spettacolare gara e al tipo di corridore emerso vincitore. Il percorso di Ponferrada, sui colli della Castilla y León, era considerato “completo”: 254 km con salite non lunghissime ma molto ripide, tratti veloci e una discesa tecnica verso l’arrivo. Insomma, un tracciato da veri all-rounder, né per soli scalatori né per puri velocisti.
La corsa fu aperta e ricca di colpi di scena. L’Italia provò più volte ad animarla (anche qui Vincenzo Nibali fu protagonista di attacchi da lontano), ma nel finale si formò un drappello con tutti i favoriti: c’erano, tra gli altri, l’australiano Gerrans, il francese Valverde, il polacco Michal Kwiatkowski e il belga Gilbert. La selezione delle salite aveva ridotto il gruppo, ma non abbastanza da evitare marcature tattiche negli ultimi chilometri. Fu così che a circa 7 km dall’arrivo, in cima all’ultima ascesa di Mirador de Compostilla, Kwiatkowski colse il momento buono: con uno scatto deciso guadagnò pochi secondi di vantaggio e si lanciò in discesa a tutta. Gli altri big si studiarono un attimo di troppo ed esitarono nell’inseguimento. Il polacco, grande cronoman e passista, sfruttò le sue doti: piegato sulle curve della discesa, aumentò il margine finché entrò nel rettilineo finale ancora con qualche metro di vantaggio. Ce la mise tutta per resistere al ritorno del gruppetto e riuscì a tagliare il traguardo in solitaria, con pochi secondi sugli inseguitori. Primo titolo mondiale per la Polonia, grazie a un corridore giovane e versatile.
Ponferrada 2014 è rimasta negli annali come la gara che ha consacrato Kwiatkowski e l’importanza di saper cogliere l’attimo su un percorso completo. Quel tracciato, infatti, fece emergere un vincitore che non era né lo scalatore più forte né il velocista più rapido, ma un finisseur intelligente e potente, capace di attaccare in cima a una salita e difendersi in discesa e sul piatto. In altri termini, il Mondiale di Ponferrada premiò la completezza tecnica. Anche gli italiani applaudirono sportivamente: quel giorno sul podio non c’erano azzurri (il migliore Fu Filippo Pozzato, 6º), ma la gara fu avvincente e onorata anche dalla nazionale italiana con vari tentativi. Da allora, Ponferrada viene spesso citata come esempio di percorso moderno bilanciato, in grado di offrire spettacolo e di non escludere a priori nessuna categoria di corridori – dal passista veloce al grimpeur resistente.
(Nel corrispondente Mondiale femminile 2014 a Ponferrada, vinse la francese Pauline Ferrand-Prévot con uno sprint a tre dopo una gara tattica. Quella fu la prima e sinora unica campionessa del mondo francese in linea donne. Le italiane quell’anno non salirono sul podio femminile, ma proprio dai percorsi completi come Ponferrada è arrivato pochi anni dopo un nuovo titolo per l’Italia: nel 2021 Elisa Balsamo, dotata di spunto veloce ma anche resistenza, ha trionfato su un circuito misto nelle Fiandre, battendo in volata una ciclista famosissima come Marianne Vos.)
Kigali 2025: il debutto africano e un percorso durissimo
Il Mondiale 2025 entrerà nella storia come il primo disputato in Africa. Dal 21 al 28 settembre i migliori ciclisti le cicliste più famose si sfidano a Kigali, Ruanda, in un’edizione che si preannuncia durissima.
- Il circuito cittadino misura 15,1 km: gli uomini élite percorreranno 15 giri più un tratto esteso con l’ascesa del Mont Kigali, per un totale di 267,5 km e oltre 5.400 m di dislivello.
- La prova femminile élite prevede 11 giri per circa 165 km, comunque selettivi.
- Le cronometro saranno altrettanto esigenti: 40,6 km con tratti in pavé e 680 m di dislivello per gli uomini, 31,2 km e 460 m di dislivello per le donne.
- A rendere il tutto più difficile ci sarà l’altitudine di Kigali (1.850 metri), che metterà a dura prova la resistenza degli atleti.
Il Ruanda si prepara così a diventare nuovo teatro del ciclismo mondiale, pronto a consegnare alla leggenda un altro capitolo dell’albo d’oro dei Mondiali di ciclismo.
Il percorso e il campione: quando la strada decide il Mondiale
Come abbiamo visto, la tipologia di percorso al Mondiale di ciclismo incide profondamente sul nome del vincitore. Fin dagli albori della rassegna iridata (dal 1927 per gli uomini, dal 1958 per le donne) si è notato come il profilo altimetrico e tecnico del circuito favorisca ora gli scalatori, ora i passisti, ora gli specialisti delle classiche o i velocisti puri.
Ecco alcuni esempi e tendenze emblematiche
Mondiali per scalatori
Quando il tracciato presenta lunghe salite o pendenze ripetute, emergono corridori con grandi doti in salita e fondo. Sallanches 1980 ne è l’esempio classico: solo un Hinault (campione da Grandi Giri e ottimo scalatore) poté vincere su un percorso così estremo. Analogamente Duitama 1995 in Colombia – percorso andino a quasi 3000 metri di quota – vide trionfare lo spagnolo Abraham Olano, con il grimpeur Pantani terzo. Tra le donne, su tracciati durissimi brillano le scalatrici: basti pensare all’olandese Annemiek van Vleuten, che nel 2019 ha vinto il mondiale in Yorkshire con un attacco solitario di oltre 100 km su un percorso collinare e sotto la pioggia (un’impresa straordinaria), oppure ad Anna van der Breggen dominatrice nel 2018 a Innsbruck, altra prova ricca di dislivello. In generale, i mondiali più duri (Imola 2020, Firenze 2013, Innsbruck 2018, etc.) hanno premiato atleti capaci di fare la differenza in salita e di resistere a lunghe distanze.
Mondiali per passisti e attaccanti da lontano
Su tracciati non estremamente selettivi ma nemmeno piatti, spesso vince chi sa anticipare. Qui rientrano quei corridori definiti passisti di classe, potenti sul passo ma anche resistenti. L’esempio principe è Imola 1968: Adorni, passista e cronoman, ha approfittato di un circuito filante per andarsene in fuga solitaria e vincere col maggior distacco di sempre. Anche Copenaghen 2011 (percorso pianeggiante) vide un’azione anticipatrice nella prova femminile, con l’italiana Giorgia Bronzini capace di conquistare il titolo in volata dopo che la sua squadra aveva controllato la corsa – Bronzini è stata bicampionessa del mondo 2010-11, esempio di velocista resistente supportata da un team che annulla le fughe. In campo maschile, un passista di potenza come Remco Evenepoel ha vinto a Wollongong 2022 con una lunga fuga solitaria: belga, cronoman eccelso, è scattato a oltre 25 km dall’arrivo su un circuito collinare e ha resistito grazie alla sua forza sul passo. Ciò conferma che percorsi medio-duri senza pendenze estreme possono esaltare gli attaccanti di classe e i passisti in grado di mantenere alte velocità da soli.
Mondiali per uomini da classiche (puncheur)
Circuiti con strappi brevi e ripetuti, o comunque percorsi mossi ma non adatti agli scalatori puri, favoriscono quei corridori esplosivi, spesso specialisti delle classiche del nord o delle Ardenne. Valkenburg (Cauberg) è il prototipo: qui hanno vinto Gilbert (2012) e Museeuw (nel 1996 a Lugano, simile come filosofia), corridori esplosivi sulle brevi salite. Anche Stoccarda 2007 – salite brevi, percorso nervoso – fu terreno di conquista per Paolo Bettini, fuoriclasse italiano delle classiche che realizzò una doppietta iridata 2006-2007. In queste gare spesso decide uno scatto nell’ultimo km o sull’ultima côte: ad esempio Lisbona 2001 vide l’attacco deciso di Oscar Camenzind e Paolo Bettini sull’ultimo strappo; Montreal 1974 (primo Mondiale extraeuropeo) fu decisa da un affondo di Eddy Merckx a 5 km dalla fine su un falsopiano. Sono percorsi che eliminano i velocisti puri ma non sono abbastanza duri per i grimpeur: la vittoria si gioca tra corridori completi, con spunto veloce e fondo. Tra le donne, una Marianne Vos (3 titoli mondiali su strada) incarna la perfetta classicista: veloce ma capace di reggere percorsi collinari, ha vinto su tracciati misti come quelli di Varese 2008 e Toscana 2013. Anche l’italiana Elisa Balsamo, laureatasi campionessa del mondo nel 2021 sul percorso mosso di Leuven (Fiandre), rientra in questa categoria: non una pura velocista da pianura, ma una passista veloce in grado di superare brevi strappi grazie anche al lavoro di squadra, per poi sprintare.
Mondiali per velocisti puri
I tracciati pianeggianti o quasi privi di difficoltà altimetriche, rarissimi nella storia iridata, offrono chance ai velocisti di professione. È il caso di Zolder 2002 (circuito piatto dentro e attorno al circuito automobilistico): qui l’Italia colse un’ultima grande gioia grazie a Mario Cipollini, sprinter purissimo, che vinse in volata di gruppo regalandosi l’agognata maglia iridata sul viale d’arrivo del circuito. Allo stesso modo Copenaghen 2011 fu praticamente priva di salite: volata scontata e vittoria al britannico Mark Cavendish, uno dei più veloci al mondo. Queste edizioni sono meno frequenti, perché l’UCI tende a disegnare percorsi più vari, ma quando capitano permettono ai campioni della velocità – che di solito hanno poche possibilità al Mondiale – di giocarsi il titolo allo sprint. Da notare: spesso questi velocisti devono comunque superare i 260 km di corsa (distanza mondiale) e arrivare lucidi alla fine; perciò i campioni del mondo velocisti sono quasi sempre fuoriclasse capaci di resistere (Cipollini, Cavendish, anche Rik Van Steenbergen che vinse 3 titoli tra anni ’40-’50 era un velocista di grande fondo). In campo femminile abbiamo esempi simili: la già citata Giorgia Bronzini ha vinto due Mondiali donne in volata pura (2010 e 2011) su percorsi pianeggianti, mostrando che anche tra le donne le sprinter possono primeggiare quando il tracciato non presenta salite.
In sintesi, “il percorso fa la corsa” anche ai Mondiali.
Ogni edizione viene ricordata non solo per il nome del vincitore, ma anche per il come quel campione ha vinto, in rapporto alle caratteristiche della strada. Che sia stata la montagna a incoronarlo, o la pioggia a selezionare i più tenaci, o una volata nel cuore di un’arena gremita a premiarne la freddezza, ogni tracciato leggendario ha consegnato al ciclismo un campione degno di quel palcoscenico. E viceversa, i più grandi campioni del ciclismo hanno saputo trovare il loro terreno ideale tra i Mondiali: da Merckx (3 titoli, incluso uno con Tripla Corona Giro-Tour-Mondiale nel 1974) a Sagan (3 titoli consecutivi 2015-17), da Jeannie Longo (5 ori mondiali tra strada e cronometro) a Marianne Vos (3 ori strada, la ciclista più famosa dell’ultima generazione). Fino al recente Tadej Pogačar, che nel 2024 a Zurigo ha vinto su un percorso durissimo completando Giro, Tour e Mondiale nello stesso anno – impresa riuscita solo a Merckx e Roche in passato. Insomma, il Mondiale di ciclismo continua ogni anno a offrirci teatri diversi e nuovi atti di una storia infinita, dove la strada sceglie i suoi eroi.
