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Il bob della Giamaica e le nazioni esotiche: il folclore e la storia delle Olimpiadi Invernali

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Olimpiadi Invernali: atleti esotici, il bob della Giamaica a Sochi 2014

Atleti esotici alle Olimpiadi Invernali

Le Olimpiadi Invernali nascono nel 1924 per dare spazio ai paesi del Nord Europa nei quali gli sport su neve e ghiaccio sono estremamente popolari. Nessuno si sarebbe mai immaginato di vedere 4 Jamaicani sfrecciare su un bob, nella glaciale Calgary del 1988. Da allora le porte delle Olimpiadi Invernali si sono spalancate anche per i paesi esotici e che era un tabù è diventata una nuova opportunità. Negli anni sono stati molti i protagonisti sui manti bianchi provenienti da tutto il mondo, alcuni portando storie e insegnamenti preziosi che vanno al di là delle medaglie conquistate.

Il sogno Giamaicano di Calgary 1988

Loro non hanno mai visto la neve, ma indossano una tuta intera gialla, nera e verde, i colori della loro nazione. Il loro mezzo, che sarebbe sfrecciato ai 130 km orari su un budello di ghiaccio, è poco più di un bob di fortuna, ma a loro non importa. Sono arrivati dove nessuno è riuscito prima di allora. Dalle assolate spiagge dell’isola di Giamaica, al ghiaccio delle Olimpiadi Invernali di Calgary 88. Possono rappresentare la loro nazione e comunque vada, verranno accolti come degli eroi al rientro in patria.

Qualche anno dopo Disney avrebbe trasformato quell’impresa in uno dei film rivelazione degli anni ‘90, “Quattro sottozero”, ma la loro storia è già leggenda.

“Cool Runnings” la pellicola che racconta la storia

Il film che in origine avrebbe dovuto chiamarsi Blue Maaga (magro come un chiodo), fa sorridere ed emozionare tutto il mondo dei cineasti sportivi.

Nonostante gli stessi protagonisti si sono sempre detti amanti del risultato, hanno tacciato la sceneggiatura di un’eccessiva spettacolarizzazione di alcuni personaggi e situazioni. Cosa è quindi veritiero e cosa no?

Partendo dai protagonisti, i bobbisti che parteciparono alle Olimpiadi canadesi non erano i migliori velocisti giamaicani che coltivavano un grande sogno accollandosi l’amico, un atleta improvvisato, ma erano 4 soldati giamaicani selezionati per forza ed esplosività da due imprenditori americani;

Anche il coach nel film non era la rappresentazione fedele della realtà, ma era ispirato a più figure realmente esistite. Fu lo stesso John Candy, che in questa occasione fece una delle sue ultime apparizioni prima della prematura scomparsa, che insistette nel dare al suo personaggio un ruolo più profondo e di riscatto oltre che di allenatore burbero già previsto dalla sceneggiatura;

Il freddo era vero. Gli stessi attori, abituati al mondo patinato dei set hollywoodiani, si lamentavano costantemente delle condizioni canadesi in cui erano soliti girare le scene;

La caduta dell’ultima discesa rappresentata nel film è assolutamente veritiera. Tra l’altro durante la stessa scena ci sono alcune sequenze provenienti dalle pellicole che originariamente avevano ripreso quanto accaduto nel 1988. Anche in quel famoso giorno di Calgary 88, gli atleti spinsero il bob fino al traguardo tra gli applausi degli appassionati e fortunati presenti in quello che sarebbe diventato uno dei momenti iconici delle Olimpiadi Invernali.

Per onor di cronaca, a Pechino 2022 la Giamaica si sarebbe ripresentata sempre nel bob a 4, tra le attese degli amanti del film e gli appassionati di storie impossibili.

Dalla spiaggia al ghiaccio

Lamine Guèye: il primo nero africano alle Olimpiadi Invernali

Se nel 1988 i giamaicani sfatano ufficialmente un mito, quattro anni prima un atleta coraggioso si è già fatto avanti.

In particolare a Sarajevo 1984, tra il debutto di Porto Rico ed Egitto c’è un certo Lamine Guèye, in gara per il Senegal. E’ il primo africano di carnagione scura a competere nei giochi Olimpici Invernali e diviene il promotore dell’inclusione africana con azioni concrete, a partire dalla fondazione della federazione sciistica nazionale del Senegal nel 1984.

Torna alle Competizioni olimpiche anche nel 1992 e nel 1994 (primo anno in cui si svolgono solo le Olimpiadi Invernali, separatamente da quelle estive) senza emergere mai atleticamente, ma rimanendo per la maggioranza degli appassionati il simbolo dell’inclusione, della perseveranza e del successo.

Philip Boit e l’amicizia con i norvegese Bjørn Dæhlie

Dieci anni dopo le Olimpiadi targate Giamaica, Calgary 1988, iniziano le prime importanti sponsorizzazioni ed è Nike a legare il suo marchio alla Nazionale kenyana nel suo debutto a Nagano 1998. Unico partecipante e portabandiera dei colori del paese africano è il nipote del bronzo olimpico degli 800 metri di Monaco 1972, Mike Boit: Philip Boit. Si qualifica per la 10km di sci di fondo a due anni dal suo primo approccio sulla neve.

A Nagano arriva ultimo con un distacco abissale dal penultimo concorrente, ma conquista la stima e l’affetto di colui che vince la gara e conquista l’oro olimpico, il campione norvegese Bjørn Dæhlie che lo aspetta al traguardo con quell’abbraccio che ancora oggi rappresenta uno dei simboli più forti di sportività ed inclusione.

Kwame Nkrumah-Acheampong: il Leopardo delle Nevi di Vancouver 2010

Facciamo un balzo in avanti e precisamente a Vancouver 2010. Dalle spiagge e dalla fitta vegetazione selvatica del golfo della Guinea arriva un coraggioso atleta, il solo a rappresentare la sua nazione.

Kwame Nkrumah-Acheampong si presenta nello sci alpino. Al cancelletto di partenza indossa la sua opera d’arte: una tuta completamente maculata da lui stesso disegnata e un caschetto verde, anch’esso maculato. Il pettorale è il numero 102. Da quel giorno rimarrà per tutti lo “snow leopard”. E’ il primo ghanese a partecipare ai Giochi Olimpici e poco importa se è nato in Scozia nella fredda Glasgow lo stesso giorno dell’inimitabile Alberto Tomba. Vive la sua infanzia a Accra, la capitale del Ghana, e nel 2002 si trasferisce a Milton Keynes, in Gran Bretagna. In quel periodo è ancora un piccolo centro industrializzato, ma negli anni successivi sarebbe diventata la sede di una delle scuderie di F1 più titolate di sempre, la Redbull, ma questa è un’altra storia.

Nella umida Milton Keynes lavora come receptionist allo Xscape skiing centre, di fatto un grande centro commerciale con una pista artificiale, approfittando delle lezioni gratuite per i dipendenti. Solo dal 2006 si trasferisce in Italia e decide di allenarsi sulle piste della Val Di Fiemme.

Il 12 febbraio del 2010, a Vancouver, Kwame è il solo della sua nazione e impugna fiero ed orgoglioso la bandiera del Ghana, felice di aver raggiunto la qualifica ai Giochi e aver fatto sfilare per la prima volta il suo vessillo.

Il suo progetto di inclusione si chiama Ghana Ski Team e ha l’obiettivo di far conoscere anche ai giovani africani la bellezza della neve e degli sport invernali. Una delle sue idee bizzarre per raccogliere fondi fu quella di vendere per 5 sterline ciascuna, le macchie della sua tuta per far scrivere all’interno il nome del donatore e raccogliere fondi.

Oggi Kwame Nkrumah-Acheampong rimane un simbolo di tenacia, altruismo, passione e resistenza che verrà ricordato negli anni non solo per chi fa parte del mondo sportivo.

Tucker Murphy e la sua cerimonia di apertura

Vancouver 2010 è stato l’anno delle grandi partecipazioni inaspettate e anche dalle assolate Bermuda, arriva l’atleta che sfida il freddo: si chiama Tucker Murphy, ha quasi trent’anni e si presenta alla cerimonia di apertura indossando il tipico bermuda (pantaloncino corto). Racconterà poi che il suo allenatore rimase scioccato di quella scelta, ma entrò senza dubbio nei 10 best moments della cerimonia di apertura di quell’anno nella maggioranza delle classifiche stilate dalle testate dell’epoca.

Si cimenta nello sci di fondo e nella sua prima olimpiade conclude la 15 km in 42:39.1, chiudendo in 88° posizione.

Negli anni successivi continuerà a portare alta la bandiera del suo paese nelle competizioni internazionali e si dichiarerà mai stanco di farlo. Con lo stesso spirito si qualifica poi anche a Sochi 2014 e PyeongChang 2018.

Sochi 2014. L’anno di svolta delle piccole realtà esotiche.

Il Comitato Olimpico Internazionale ormai da anni spinge per aumentare la partecipazione olimpica globale e questa volontà si concretizza con wild card speciali e criteri di qualificazione più flessibili che portano i Giochi russi ad avere di fatto più presenze rispetto alle Olimpiadi precedenti di Vancouver 2010 e Torino 2006.

Yohan Goutt Gonçalves: Timor Est e lo slalom speciale in notturna

E’ quindi l’anno di Timor Est e a Sochi 2014 fa ingresso alla cerimonia di apertura Yohan Goutt Gonçalves. Il padre è francese, la madre Timorese e sa di non poter ambire alla nazionale francese, ma è bello pensare che Yohan decida di seguire le orme della madre per dare visibilità ad una nazione che nelle classifiche olimpiche è quasi assente, raccontando al mondo che anche i sogni dei piccoli possono brillare tra i riflessi dei grandi sulla neve.

Lo slalom speciale di Sochi 2014 è una gara atipica: la prima manche si svolge il pomeriggio, e al calare delle tenebre parte la seconda manche, illuminata dai riflettori. Oltre alle difficoltà del cambiamento di luci, Yohan si trova a dover gestire una neve molto soffice dovuta alle temperature estremamente miti che non scendono mai sotto i 5 gradi durante l’intero periodo olimpico.

Il timorese proseguirà la sua avventura anche a PyeongChang 2018 e Beijing 2022.

Michael Christian Martinez: il filippino che si allena nei centri commerciali

Lo stesso anno anche sulla pista del pattinaggio artistico arriva un poeta del ghiaccio. L’Olimpiade russa porta con sé grandi polemiche tra i banchi dei giudici dell’Iceberg Skating Palace: le valutazioni date nella finale della gara individuale femminile non convincono. Vince la russa Adelina Sotnikova, a discapito della favorita Kim Yu Na della Corea del Sud e dell’italiana Carolina Kostner.

Se da una parte l’idolo di casa Evgeni Plushenko, dopo la conquista dell’oro a squadre, si ritira per un grave problema fisico che rischia di paralizzarlo, dall’altra un giovane di carnagione olivastra fa il suo primo ingresso sulla pista olimpica, il 13 febbraio 2014. Supera il taglio del programma corto e si qualifica per il programma libero del giorno successivo. Ha appena 17 anni, è filippino e si chiama Michael Christian Martinez. Si allena tra le piste del centro commerciale di Manila, tra i bambini e gli addetti delle pulizie. All’Olimpiade di Sochi 2014 conclude al 19° posto complessivo e tutti lo ricorderanno come il principe del ghiaccio per la sua eleganza e la sua somiglianza ad Aladdin, il personaggio principale del cartone per bambini distribuito 12 anni prima. Nel 2018 prova una nuova qualificazione, ma non riesce ad accedere alla fase finale. Rimarrà per tutti il volto del sogno realizzato, di un giovane pattinatore del sud-est asiatico.

Vanessa-Mae Vanakorn: la violinista che sogna un pass olimpico

Anche la Thailandia ha un gioiello nel cassetto. Il mondo già la conosce per il suo talento da musicista. Nel 2007 Vanessa-Mae Vanakorn pubblica il suo album “Storm”, opera di reinterpretazione dell’Estate di Vivaldi, e chissà se proprio in quella occasione matura la volontà di realizzare il suo sogno di partecipazione olimpica: Vanessa è capace di mettere in musica la sua capacità di rompere gli schemi. La sua carriera da violinista classico-pop le regala grandi soddisfazioni, ma ha un sogno nel cassetto da realizzare e il doppio progetto di vita si concretizza il 7 febbraio 2014.

A Sochi 2014 ha una bandiera da portare alta nel Fisht Olympic Stadium. Lo scintillio della copertura luccicante del nuovo stadio e i 3000 artisti impegnati nella cerimonia di apertura non offuscano l’attesa che la violista britannico-thailandese ha generato attorno alla sua partecipazione.

Gareggia nello slalom gigante femminile e nonostante i risultati sportivi modesti, suscita curiosità ed ammirazione. Permette anche alla Thailandia di essere presente a Sochi 2014 e questo le basta.

Dopo i Giochi, un’inchiesta della FIS la squalifica temporaneamente per presunte irregolarità nelle gare di qualificazione, ma nel 2015 viene completamente scagionata: la sua qualificazione è regolare e il suo sogno olimpico pienamente legittimo.

Pita Taufatofua: il guerriero in lava-lava e la doppia olimpiade

Pita Taufatofua nasce nel 1983 nel Tonga, paese al quale decide di dedicare la sua vita. Facciamo un passo indietro: siamo Rio 2016 e nel colossale Maracanà Brasiliano, ristrutturato per accogliere la cerimonia di apertura dei giochi olimpici, l’atmosfera a tratti moderna, caratterizzata da droni e proiezioni led, le musiche tipiche e trascinanti come la samba, ci riportano al mood sudamericano e tra gli atleti danzanti in sfilata, fa ingresso un guerriero perfettamente integrato con la festa. E’ lui, Pita che si presenta a petto nudo, oliato e in lava-lava, attirando l’attenzione mondiale e dando lustro al piccolo regno di Tonga come mai era capitato alla piccola e pacifica nazione.

Ma la svolta del paese tongano nello sport mondiale avviene con la partecipazione dello stesso Pita Taufatofua a PyeongChang 2018. Si qualifica come fondista con pochi mesi di allenamento alle spalle e si laurea il primo atleta di Tonga a qualificarsi alle Olimpiadi Invernali. L’attesa del suo ingresso è incalzata dalle aspettative che non vengono smentite. Nonostante i -8°C ed il vento leggero che aumenta la sensazione di freddo, il suo ingresso nello stadio della cerimonia di apertura avviene come da pronostico, a petto nudo seguito da un’ovazione di chi ha imparato ad amarlo 2 anni prima nella calda Rio de Janeiro.

Tre anni dopo avrebbe poi chiuso il cerchio con le Olimpiadi estive di Tokyo 2020, qualificandosi nel Taekwondo e rimanendo uno dei pochissimi ad aver partecipato a 3 Olimpiadi in 5 anni.

Il velocista ghanese Akwasi Frimpong

Akwasi Frimpong è un velocista ed ostacolista che non eccelle nelle sue discipline. La volontà di indossare la bandiera ghanese e rappresentare la propria nazione negli eventi a cinque cerchi è più forte dei preconcetti riservati ai paesi esotici rispetto alla partecipazione alle Olimpiadi Invernali. La sua mancata qualificazione alle Olimpiadi estive di Londra 2012 non lo abbatte. Il velocista prosegue la rincorsa al suo sogno tentando la qualificazione come bobbista a Sochi 2014. Anche in questo caso è un fallimento. Akwasi non demorde e nel 2018, a PyeongChang, diventa il primo atleta ghanese della storia a gareggiare nello skeleton ed il secondo proveniente dal Ghana in assoluto dopo Kwame Nkrumah-Acheampong, il Leopardo delle nevi di Vancouver 2010.

Le wild card accorciano le distanze e rendono i sogni più raggiungibili

Parlare di Olimpiadi Invernali e atleti esotici porta inevitabilmente a scrivere delle wild card. Questi inviti nascono come uno strumento del CIO, il Comitato Olimpico Internazionale per permettere la partecipazione di atleti appartenenti a paesi esotici che non riuscirebbero a raggiungere gli standard minimi di qualificazione.

Nascono ufficialmente durante le Olimpiadi degli anni ‘70 e sembra che le prime siano state concesse per le discipline di Lotta e  Judo a Montreal 1976. Solo nel 1984 vengono ufficializzate e formalizzato il concetto di wild card che, istituzionalmente, sono chiamate universality card.

Se ne inizia a parlare con costanza e viene chiaramente documentato solamente negli anni 2000, ma è necessario attendere Parigi 2024 per la formalizzazione anche per l’atletica del sistema di Universality Places.

L’Olimpiade non è solo una gara riservata ai più forti. E’ un racconto di sport come lingua universale e non solo riservata a chi ha inverni rigidi. In un contesto di grande apertura dell’ambiente sportivo era necessario fornire gli strumenti adeguati per permettere che identità lontane si incontrassero. Il CIO ha risposto presente ed ogni cerimonia di apertura dove sfilano Ghana, Tonga, Timor Est o Filippine diventa un momento di orgoglio globale.

Oltre il cuore degli atleti esotici ci sono sacrifici e difficoltà

La partecipazione degli atleti esotici alle Olimpiadi Invernali ha sempre riscosso prima che ammirazione un velato senso di compassione tipico di chi si crede superiore, di chi ha sempre partecipato e di chi si sente padrone di casa senza averne il titolo.

E’ bene ricordare che oltre al cuore e alla lotta agli stereotipi, questi atleti hanno dovuto lottare contro difficoltà oggettive che spesso non fanno parte dei pensieri degli atleti dei paesi più freddi.

  • Se la mancanza di infrastrutture è un argomento banale ma sotto gli occhi di tutti, non si realizza quanto questo porti a dispendio di denaro importante, per gli allenamenti dovuti a trasferimenti all’estero, spesso lontani dalle famiglie.
  • I paesi esotici non hanno storie di sport invernali tali da garantire budget dedicati importanti. Questo porta molti atleti a doversi autofinanziare e a trasferimenti quasi obbligati per provare a raggiungere le competizioni a cinque cerchi.
  • Dove i trasferimenti degli atleti non avvengono, spesso sono i tecnici ad essere importati e i costi chiaramente lievitano per paesi che accettano di scommettere su sogni mascherati da obiettivi concreti.
  • Altro aspetto non poco rilevante sono le qualificazioni olimpiche per le quali i punteggi minimi, che per alcuni paesi sono raggiungibili partecipando a circuiti di gare interne, per altri sono pressoché impossibili. La nascita delle wild card, comunque, concede qualche opportunità in più.

Noi li chiamiamo atleti esotici, ma forse sono solo più coraggiosi.

Puro spirito olimpico

In un’epoca dominata da record e delusioni per mancati ori olimpici, c’è chi ancora vive lo spirito originario di indossare i cinque cerchi, oltre i sogni più improbabili.

Se da una parte ci sono tristi storie di selezioni sudafricane negli anni ‘60 per rispettare le caratteristiche imposte dall’apartheid che, certamente, non prevedevano atleti di carnagione scura, dall’altra ci sono racconti di atleti, campioni ed eroi che scelgono di dedicare il proprio tempo al raggiungimento di un sogno irraggiungibile.

Forse il vero oro olimpico non è solo quello che brilla sul petto di chi vince, ma anche quello di chi, contro ogni pronostico, riesce a indossare i cinque cerchi e a vivere il profumo di un sogno diventato realtà.

Akwasi Frimpong, atleta Ghanese di cui abbiamo raccontato la storia, fece una dichiarazione che oggi rimane un inno allo spirito olimpico: “Non ho vinto una medaglia, ma ho vinto la speranza di milioni di africani che ora sanno che nulla è impossibile.”

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