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Elia Viviani rilancia: “Vorrei correre anche nel 2026. Servono investimenti per la pista. Ganna vincerà una Monumento: è questione di tempo”

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Elia Viviani
Elia Viviani / IPA agency

Dopo oltre quindici stagioni tra i professionisti, Elia Viviani si trova a un momento di svolta della sua carriera. La maglia della Lotto Dstny gli ha regalato un nuovo capitolo da vivere con entusiasmo e professionalità, culminato con una bella vittoria al Giro di Turchia, che lo ha riportato sul gradino più alto del podio. Un successo che sa di conferma, ma anche di nuova prospettiva. Perché quella che sembrava poter essere la sua ultima stagione nel World Tour, potrebbe non esserlo affatto. Il corridore veronese, classe 1989, ha ancora qualcosa da dare: lo dimostra la sua determinazione e la consapevolezza di chi ha già lasciato un segno profondo, ma non ha ancora chiuso i conti con il ciclismo. Viviani ha costruito una carriera solida, ricca di risultati su strada, ma il suo contributo più significativo è arrivato in pista, dove è stato il pioniere della rinascita azzurra. Il primo a credere in un progetto tecnico che ha riportato l’Italia sul tetto del mondo e dell’Olimpo. Oggi guarda al passato con orgoglio, ma anche con lucidità, consapevole che per dare continuità a quel movimento servono strutture, visione e investimenti. In questa intervista Elia traccia un bilancio della sua stagione, ripercorre i momenti più intensi della sua carriera – dall’oro olimpico al titolo europeo su strada nel 2019, passando per il campionato italiano – senza nascondere i rimpianti. Parla dei rapporti più forti costruiti nel gruppo, del futuro del ciclismo italiano rappresentato da Pellizzari, Ciccone e Tiberi, e delle ambizioni di Filippo Ganna, che secondo lui è pronto per il grande salto in una Classica Monumento. Un racconto sincero, umano e appassionato di uno degli ultimi grandi protagonisti del ciclismo italiano contemporaneo.

Che bilancio tracci della tua stagione alla Lotto, in cui ti sei tolto anche la soddisfazione di vincere al Giro di Turchia?
“Sicuramente la vittoria al Giro di Turchia è stato un momento importante, perché ha rotto un po’ il ghiaccio dopo un inizio di stagione piuttosto complicato. Prima di quella corsa avevo bisogno di ritrovare il ritmo gara, sentivo di non essere ancora al mio livello. In Turchia ho trovato buone sensazioni e ho avuto l’occasione di concretizzare con una bella volata vincente. Dopo quella vittoria speravo di riuscire a dare continuità, specialmente a Dankerque e alla Copenaghen Sprint, ma non sono riuscito a esprimermi come avrei voluto. Poi c’è stato il lungo blocco di preparazione tra giugno e luglio a Livigno, lavorando molto in altura per essere pronto per la seconda parte della stagione. Adesso sono al Giro di Polonia, e poi punterò ad Amburgo e alla Vuelta, dove spero di farmi vedere ancora”.

È la tua ultima stagione da ciclista professionista?
“La risposta, per ora, è no. Non c’è ancora nulla di definitivo, ma con la squadra stavamo parlando di prolungare per un altro anno, anche per avere l’occasione di correre il Giro d’Italia nel 2026, che resta un obiettivo speciale per me. Tuttavia, la possibile fusione tra Lotto Dstny e Intermarché ha complicato le cose. Prima che si parlasse di questa unione, le probabilità di restare erano alte, anche perché la squadra era contenta del mio contributo. Ora dobbiamo vedere come si evolveranno le situazioni interne e che spazio ci sarà effettivamente per me. Rimango aperto a tutte le possibilità, ma se ci sarà l’opportunità giusta, la motivazione per continuare non mi manca”.

Essendo ormai sul finale della tua carriera, qual è il tuo approccio alle corse e che sensazione provi?
“Il mio approccio è cambiato nel tempo, ma la voglia di competere è sempre alta. Ogni volta che attacco il numero sulla schiena, parto con l’obiettivo di vincere, anche se so bene che il ciclismo di oggi è molto diverso rispetto a quello di anni fa. Ora le corse sono più frenetiche, il ritmo è altissimo fin dai primi chilometri e c’è meno spazio per la gestione tattica. È un ciclismo esasperato, molto più fisico e meno prevedibile. Però il fatto che riesca ancora a essere competitivo in questo contesto significa tanto per me. Vuol dire che ho saputo adattarmi, che sono ancora in grado di dare battaglia ai giovani. E questo mi dà grande motivazione”. 

Sei stato il pioniere della rinascita della pista in Italia. Voltandoti indietro, quali sono i momenti che più porti nel cuore?
“Sicuramente il percorso che abbiamo fatto dal 2012 in poi è stato straordinario. Alle Olimpiadi di Londra ero l’unico rappresentante della pista maschile. Poi, nel giro di quattro anni, siamo riusciti a costruire un gruppo coeso e vincente: a Rio 2016 ho conquistato il mio oro olimpico nell’Omnium, ma anche lì si respirava un’energia diversa, un entusiasmo nuovo. Il vero apice, però, è arrivato con Tokyo 2020 e la vittoria del quartetto: un risultato storico, frutto di un lavoro di squadra incredibile. In quegli istanti mi sono passati davanti anni di sacrifici, di sogni, di crescita. E la cosa più bella è stata vedere come da quell’idea iniziale, un po’ visionaria, sia nato un movimento che ha riportato l’Italia ai vertici”. 

Pensi che quanto costruito su pista sia destinato a durare nel tempo?
“Credo di sì, anche se bisogna essere realisti: ogni ciclo ha un inizio e una fine. Il gruppo che ha vinto a Tokyo era eccezionale, ma il movimento ha ancora basi solide per proseguire. A Parigi 2024 siamo stati competitivi in tutte le specialità, soprattutto con il gruppo femminile, che ha ancora molto da dare e può fare benissimo anche verso Los Angeles 2028. Per quanto riguarda i ragazzi, ci sarà inevitabilmente un ricambio generazionale: dipenderà molto dalle scelte di atleti chiave come Ganna, Milan, Consonni e Lamon. Se decideranno di continuare a puntare anche sulla pista, il livello rimarrà alto. Altrimenti bisognerà dare spazio ai giovani, che ci sono e sono forti, ma che vanno accompagnati nel modo giusto. Serve una visione a lungo termine, strutture, investimenti. Altrimenti si rischia di disperdere tutto quello che abbiamo costruito”.

L’Europeo 2019 è stata la tua soddisfazione più grande su strada?
“Sì, l’Europeo vinto nel 2019 è sicuramente uno dei miei successi più belli, anche perché in quella corsa sono riuscito a superare i miei limiti, a correre in modo diverso dal solito. Ma se devo scegliere una gara che porto nel cuore, allora dico il Campionato Italiano l’anno precedente. Correre con la maglia tricolore addosso, rappresentare il tuo Paese ogni giorno, è una sensazione unica. In quelle due occasioni ho sentito di fare qualcosa di speciale, di andare oltre le mie caratteristiche. E questo, nel bilancio di una carriera, ha un peso enorme”.

Il rimpianto invece?
“Ce ne sono alcuni, come è naturale in una carriera lunga. Uno dei più grandi è sicuramente il mancato successo nella prima tappa del Giro d’Italia 2013, quando ho perso la maglia rosa per mezza ruota contro Cavendish. Era il mio primo Giro, ero giovane e quella tappa sarebbe stata qualcosa di magico. Poi penso anche al Mondiale di Doha nel 2016: un tracciato perfetto per le mie caratteristiche, ma purtroppo arrivava troppo vicino alle Olimpiadi di Rio. Avevo ancora nelle gambe lo sforzo dell’Omnium e non sono riuscito a essere al top”. 

Con chi hai legato maggiormente in gruppo in tutti questi anni di carriera?
“Ho avuto la fortuna di far parte di gruppi bellissimi. Sicuramente uno dei più importanti è stato quello della Liquigas: lì sono cresciuto insieme a Peter Sagan, con cui ho condiviso tanti momenti indimenticabili. Ma anche corridori come Nibali, Oss, Sabatini, Ponzi, Bennati, Marangoni, Pellizotti… eravamo una vera famiglia. Anche in QuickStep ho trovato un gruppo unito, dove in due anni abbiamo costruito legami forti. Ma il gruppo Liquigas resterà per sempre nel mio cuore: eravamo giovani, ambiziosi e ci divertivamo a correre insieme. Quelli sono amici che porterò con me per tutta la vita”.

Secondo te Ganna vincerà una Classica Monumento?
“Assolutamente sì. Filippo ha già dimostrato in più di un’occasione di essere competitivo per vincere gare come la Milano-Sanremo o la Parigi-Roubaix. Ha il motore, la testa e la determinazione giusta. Gli manca solo il giorno perfetto, quello in cui tutto gira nel modo giusto. Ma ci arriverà, è solo questione di tempo”.

Cosa ti aspetti alla Vuelta da Pellizzari, Ciccone e Tiberi?
“Ciccone è, a mio avviso, lo scalatore più forte e completo che abbiamo in Italia in questo momento. È arrivato a una maturità importante e credo sia pronto per raccogliere risultati pesanti, anche in ottica classifica generale. Tiberi è un corridore più giovane ma già solido, ha una buona cronometro, sa recuperare e ha la testa giusta: alla Vuelta può fare bene e giocarsi un piazzamento importante. Pellizzari è ancora un progetto in crescita, ma ha già dimostrato al Giro che ha il talento per diventare un protagonista; così come Finn che ha un potenziale immenso, ma ancora giovanissimo. Per l’Italia è fondamentale proteggerli, farli crescere senza bruciarli. Sono loro il nostro futuro nei Grandi Giri. E oggi, più che mai, per vincere un Grande Giro serve saper andare forte a cronometro: senza quel tassello, diventa tutto più difficile, se non impossibile”.