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Coppa Davis, le sconfitte più dolorose dell’Italia negli ultimi 60 anni. Il Canada si aggiunge alla lista

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Lorenzo Sonego

Quella dell’Italia contro il Canada è la prima sconfitta veramente inattesa, e fragorosa, del team azzurro all’interno del nuovo format della Coppa Davis. Ma, se andiamo a guardare la storia tricolore nella celebre competizione, non si tratta dell’unico caso in cui si è verificata una sconfitta con ampi favori del pronostico o in circostanze che, comunque, erano decisamente favorevoli. Soprattutto nell’Era Open ci sono state alcune situazioni i cui ricordi si tramandano fino a oggi. Con i format, chiaramente, di tempi passati.

Soprattutto dagli Anni ’60 se ne ricordano alcune di particolare rilievo. In queste annate, sono specialmente un paio di capitomboli inattesi tra 1966 e 1967 a spiccare. C’entra il fatto che Nicola Pietrangeli non fosse più quello dei tempi migliori (anche se poi vinse Montecarlo nel 1968), e c’entra anche il fatto che non fosse ancora il tempo di Adriano Panatta, che al tempo, si può senz’altro dire, non aveva l’età. L’Italia entrava da favorita, nel 1966, contro il Sudafrica nella semifinale zonale, ma più delle sconfitte in doppio e di Pietrangeli al quinto set contro Cliff Drysdale (uno che, comunque, è stato in grado di arrivare almeno ai quarti in ogni Slam), a far male fu il fatto che Sergio Tacchini non riuscì a superare l’ostacolo Keith Diepraam, che non era imbattibile sul rosso, specie quello di Roma. A fare anche più rumore, però, fu quanto accadde l’anno dopo a Napoli contro il Brasile, con Jose Edison Mandarino e Tomas Koch che non lasciarono scampo a Pietrangeli e Giordano Majoli, che poi perse anche il doppio assieme a Vittorio Crotta con i due citati.

Un’altra sconfitta spesso ricordata è quella del 1978 in Ungheria. E lo è non tanto per il valore dell’avversaria, perché i magiari avevano buoni elementi e Balasz Taroczy non è andato lontano dalla top ten mondiale in singolare. Semmai, fu un fragoroso punto nero tra quattro finali dell’Italia, nel periodo più bello per la squadra di Davis azzurra. Adriano Panatta stava vedendo crollare a pezzi la sua General Sport, con la testa semplicemente non c’era e vinse solo un set tra Taroczy e Peter Szoke, il numero 2 ungherese, giocando malissimo anche in doppio. Fu l’unica sconfitta al primo turno di quegli anni (se si eccettua il 1975 con la Francia).

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Dei tempi torna alla mente anche il 1982: chi lo sente nominare già sa che si parla di Nuova Zelanda e Cervia. Già, perché allora si giocava sempre al Foro Italico. Ma, in quell’occasione, fu scelta un’altra sede. Non fu una decisione felice, perché Chris Lewis e Russell Simpson confezionarono una bruttissima sorpresa agli azzurri, in quello che era il penultimo anno di Panatta. Il primo avrebbe poi raggiunto la finale a Wimbledon e sarebbe quasi sparito dalla circolazione in seguito, ma in quei giorni quel 3-2 fu davvero fragoroso.

Il tempo poi sposta le lancette dell’orologio direttamente al 1992. Che, paradossalmente, non contiene una sconfitta clamorosa tanto per il valore degli avversari (Luiz Mattar e Jaime Oncins sulla terra erano dei validi elementi), ma perché dire Maceiò vuol dire ricordare troppo per chi vi assistette. Il cammino dei brasiliani, va detto, fu clamoroso, perché al primo turno batterono la Germania di Becker, rigiocarono in casa e sconfissero anche l’Italia, con la torcida carica a mille. La svolta si ebbe con Paolo Canè che perse da Oncins il secondo singolare, poi cadde anche il doppio (Motta/Roese su Camporese/Nargiso in cinque) e Stefano Pescosolido non fu in grado di terminare ancora contro Oncins: ritiro all’inizio del quarto set, con i crampi addosso.

Dieci anni dopo, con la Finlandia, arrivò forse la sconfitta più assurda di tutte per tante circostanze. A Reggio Calabria il venerdì piovve, in quel giorno che voleva essere almeno da 1-1 per poter tenere vive le speranze di giocare il playoff per il Gruppo Mondiale dal quale si era scesi nel 2000. Davide Sanguinetti stava vincendo per due set a zero contro Kim Tilikainen, un solo match Slam in carriera (perso da Andrea Gaudenzi al Roland Garros 1996), al massimo 207 del mondo e più noto per essere diventato coach di Jerzy Janowicz. Il resto della storia disse altro: al sabato Sanguinetti implose, perse, Jarkko Nieminen fu troppo superiore a Giorgio Galimberti e poi, insieme a Lauri Kiiski, batté ancora Galimberti e Mosè Navarra. Totale: nove set persi e zero vinti in un giorno.

Il punto più basso resta inevitabilmente quello legato allo Zimbabwe nel 2003. Non era una sfida facile e si sapeva, considerato che ancora giocava Wayne Black, non più nel fiore degli anni in singolare, ma ancora fortissimo in doppio. Ma Kevin Ullyett, al tempo privo di ranking in singolare, lo si pensava ostacolo più facile per Filippo Volandri, che invece ci perse in quattro set; successivamente Sanguinetti fu troppo nervoso con Black e il doppio formato dai due, che vedeva l’Italia già sfavorita, si trasformò nel punto da ottenere per forza. Non arrivò: il ko di Galimberti e Massimo Bertolini significò retrocessione nel World Group II, la Serie C.

Dopo anni, situazioni particolari e un ritorno ai piani alti nel 2011, degli anni di World Group la sconfitta senz’altro più particolare rimane quella con il Kazakistan nel 2015. Trasferta di primo turno non propriamente semplice ad Astana, con Mikhail Kukushkin che travolse Simone Bolelli non in forma e Andreas Seppi che tentò di riparare. Bolelli e Fabio Fognini vinsero il doppio, ma Kukushkin si ripeté su Seppi. A quel punto toccò a Fabio Fognini, che però non trovò mai davvero le chiavi e sprecò tanto contro Alexander Nedovyesov, un passato al massimo da numero 72 del mondo. Fu al quinto che arrivò una delle sconfitte più amare della carriera del ligure (che si riscattò, però, portando a casa praticamente da solo lo spareggio contro la Russia di un giovanissimo Andrey Rublev).

Foto: LaPresse