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Formula 1

F1, il grande male della Ferrari è cercare sempre alibi e non fare mai autocritica. Così sarà sempre notte fonda

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Oggi è il 31 ottobre. Esattamente 23 anni fa, i ferraristi si svegliarono ben prima del sorgere del Sole, nella speranza di assistere a un’Alba Rossa. Eddie Irvine si giocava infatti il titolo iridato con Mika Häkkinen in Giappone. Andò male, in quanto Michael Schumacher, che avrebbe dovuto recitare il ruolo di “stopper” nei confronti del finlandese, sbagliò la partenza e spalancò la porta al successo del finnico. Eppure, quella domenica 31 ottobre 1999 fu una giornata agrodolce per i tifosi del Cavallino Rampante.

Sicuramente più “agro” che “dolce”, perché la delusione per il terzo Mondiale piloti consecutivo perso al fotofinish dopo quelli del 1997 e 1998 era tanta. Tuttavia, c’era qualcosa di diverso. Grazie al secondo posto di Schumacher e al terzo di Irvine, Ferrari era quantomeno riuscita a difendere la leadership nella classifica costruttori. Sarà anche stato un “brodino”, ma nel Grande Digiuno perdurante da tempo immemore anche quel consommé aveva un sapore delizioso. Anche perché per tutti fu evidente come, se a luglio Schumi non si fosse spezzato una gamba a Silverstone, molto probabilmente l’esito del campionato sarebbe stato diverso. Con il senno di poi, quell’affermazione nella classifica riservata alle squadre rappresentò il prologo dei trionfi del lustro successivo, il segno di come il Cavallino stesse davvero tornando Rampante.

Il passaggio dalla notte al giorno, e viceversa, non è mai immediato. Ci sono un crepuscolo e un’aurora. Così è stato anche per Maranello, poiché le tenebre del ventennio abbondante 1979-2000, durante il quale non arrivò alcun titolo piloti, vennero mitigate dal “crepuscolo” dei Mondiali costruttori 1982/1983 e dall’”aurora” di quello 1999. Nel mezzo 16 anni di buio totale, un arco temporale a cui ci stiamo avvicinando in maniera preoccupante.

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Si è reduci dal Gran Premio di Città del Messico. Meglio stendere un velo pietoso. Come è andato a finire lo sappiamo e, per la verità, ormai poco importa. Si trattava di un dead rubber in una stagione che ha già emesso i suoi verdetti. I Campioni sono Max Verstappen e la Red Bull. Ancora una volta le Rosse guardano festeggiare gli altri, riponendo le proprie speranze nell’”anno prossimo”, come accade da quasi tre lustri. In questo 31 ottobre 2022 non c’è traccia di alcuna aurora ferrarista che possa lasciar presagire la fine della notte cominciata dopo il crepuscolo del 2 novembre 2008, giorno del folle epilogo di Interlagos, dolorosissimo per Felipe Massa, ma dove almeno la Ferrari si fregiò del Mondiale costruttori.

Quest’anno è arrivato qualche successo qua e là, ma la candidatura iridata è crollata come un castello di carte. Al riguardo viene da chiedersi quanto tempo passerà ancora prima di rivedere la Scuderia di Maranello in cima al mondo. Il timore è che possa trascorrerne ancora parecchio, perché quanto avvenuto negli ultimi giorni non lascia spazio all’ottimismo. Non si fa riferimento al Gran Premio messicano, bensì all’atteggiamento ferrarista nei confronti della vicenda relativa alla violazione del budget cap da parte di Red Bull.

Il Drink Team ha superato il tetto massimo di spesa di un “TOT”. È stato punito con una multa pari al triplo della cifra contestata e ha visto decurtato il proprio sviluppo in galleria del vento di una percentuale quintupla rispetto a quella dell’eccesso pecuniario. Una sanzione non certo draconiana, ma neppure propriamente blanda. Eppure, a Maranello c’è chi ha iniziato a stracciarsi le vesti. Non è che qualcuno stesse solo aspettando l’alibi per giustificare la disfatta del 2022? Se così fosse, almeno recitatela bene la parte delle vittime.

Per esempio, che senso ha la dichiarazione di Laurent Mekies secondo la quale Red Bull “avrebbe guadagnato 2 decimi” grazie allo sforamento del budget cap? Due decimi a Singapore, dove il giro si compie in 1’50”, sono una cosa. Due decimi a Spielberg, dove invece una tornata viene percorsa in 1’05”, sono un’altra. Dove si collocano esattamente questi “due decimi”? Ammesso sia vero, il concetto non andrebbe spiegato e declinato? Gli ingegneri non hanno familiarità con la nozione di proporzione?

Peraltro, non è ben chiaro quale sia l’impatto della spesa eccessiva di Red Bull negli obbrobri strategici del muretto ferrarista a Montecarlo, Silverstone e Budapest, nelle power unit andate arrosto a Montmelò, Baku e Spielberg, negli errori di Charles Leclerc al Paul Ricard o di Carlos Sainz a Suzuka, oppure nei ripetuti pit-stop lenti (senza citare quello fantasmagorico a 3 ruote di Zandvoort).

Se Ferrari avesse creato una vettura quasi perfetta e avesse sbagliato quasi niente, avrebbe ragione di lamentarsi e di alzare le barricate. Però, dopo tutto quanto accaduto da fine aprile a oggi, si ha davvero il coraggio di indicare la violazione altrui del budget cap come un fattore decisivo nella brutale sconfitta nella campagna iridata? Forse i primi barlumi della metaforica aurora saranno rappresentati dall’autocritica, che nel 2022 hanno avuto il coraggio di fare solo i piloti. Fino a quando non cominceranno a farla anche altri, per intenderci quelli che hanno passato una settimana ad annunciare la roboante doppietta sicura all’Hungaroring, per Maranello rimarrà notte fonda.

Foto: La Presse