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Kobe Bryant, a due anni dai momenti in cui il mondo seppe tutto

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Correvano proprio in queste ore, due anni fa, le notizie. Prima dagli States, e in molti la credettero una bufala. Poi un messaggio. Poi un altro. Poi conferme ulteriori. L’orrenda sensazione che quella non fosse una bufala. Poi l’amara verità, una, incontrovertibile.

Kobe Bryant era morto in un incidente aereo. E con lui la figlia Gianna, Gigi per tutti. E con loro altre sette persone. Era la pallacanestro la missione di alcuni, non lo era di altri. Ma il mondo della palla a spicchi, quello sì, rimase fermo, sospeso tra quel che c’era giù, sul parquet, e quel che c’era fuori, un dolore che si scopriva comune, totale, inarrestabile.

Perché la morte di uno dei simboli della pallacanestro mondiale ha reso tutti umani, in quel momento. Michael Jordan, che non amava e non ama particolarmente troppe dichiarazioni pubbliche, ne rilasciò una la cui devastazione si comprese in pieno quando apparve un mese dopo, allo Staples Center (che oggi non è più tale) per la celebrazione in ricordo dell’uomo che tutti avevano imparato a conoscere anche come Black Mamba. Prima con l’8, poi con il 24. Quinn Cook non era Jordan, ma era uno dei Lakers. Uno della squadra. E andò lui, con i tifosi, in mezzo ai tifosi, a piangere come uno di loro, perché a quel punto le distinzioni erano sparite.

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C’erano i tributi naturali, le squadre che tributavano lo scorrere degli 8 secondi, poi dei 24. I cori “Kobe, Kobe” che partivano dalle tribune. Giorni irreali, in cui la pallacanestro continuava eppure sembrava ferma di fronte a qualcosa di così enorme. E anche il resto dello sport è rimasto come paralizzato di fronte a un simile evento.

Kobe, l’uomo che era venuto in Italia seguendo il padre Joe, dall’Italia aveva appreso tante cose. E non l’aveva dimenticata mai. Un rapporto d’amore ricambiato, quello, perché ogni volta che tornava dalle nostre parti l’accoglienza era puntualmente di quelle rare. Nel 2011, per lui fu letteralmente bloccata Via del Corso, a Roma. Centinaia e centinaia di persone accorse lì, in un bel pomeriggio capitolino, per un uomo che aveva vinto cinque anelli ed era prossimo a regalare ancora tanti altri momenti di spettacolo puro.

La sua non è solo la storia di chi ha avuto successo nella pallacanestro, cambiando prospettiva, facendo sforzi, pur di raggiungere un obiettivo. Jordan. Non sono rari i video su YouTube che ancora oggi mostrano le estreme similitudini: voleva essere come Michael, meglio di Michael. Ci sono stati certamente alcuni giocatori (molto pochi, sia ben chiaro) migliori di Kobe Bryant. Ma Kobe Bryant è la cosa più vicina a Michael Jordan, a livello tecnico, che si sia mai vista, col passare degli anni. E anche a livello di agonismo non scherzava. Valgono i tanti aneddoti raccontati dai compagni. Compreso quello Shaquille O’Neal con cui ebbe un rapporto prima difficile, poi sempre più d’affetto. E fu Shaq, forse non per caso, in linea col carattere che l’ha reso famoso, a trovare il modo di far ridere tutti anche in una cerimonia che di risate in teoria ne doveva riservare poche.

La sua storia è anche quella di chi nella vita ha sbagliato. Come tutti, diremmo. Non c’è, in fondo, santo su questa terra. Ma dagli errori si rinasce, e lui ci è riuscito. Ha ricostruito la propria vita, pezzo dopo pezzo. E alla fine ha fatto parlare prima il campo e poi fatti. Alla fine ha vinto lui, dimostrando di aver dato vita compiuta alla persona oltre il giocatore. Quello è il Kobe Bryant che ricorda il mondo. Quello è il Kobe Bryant che su questo pianeta ha lasciato un’eredità che non si può riassumere in qualche centinaio di parole.

Foto: LaPresse