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Basket
Michele Carrea, basket: “Trieste-Pistoia, il viaggio la parte più sconvolgente. Tessitori ha grandissime qualità umane oltre che tecniche”
Tra gli allenatori più stimati in Serie A2 negli ultimi anni, Michele Carrea ha visto presentarsi quest’anno l’occasione del salto di categoria, a Pistoia. Nonostante un inizio difficile, la sua OriOra era riuscita a fare un notevole balzo verso la lotta per la salvezza, prima che l’interruzione causata dalla pandemia di coronavirus desse al campionato una forma incompiuta. Abbiamo raggiunto telefonicamente il coach milanese per un’intervista, nella quale ci ha raccontato la stagione pistoiese, il surreale viaggio per l’ultima partita a Trieste, gli anni a Biella e alcuni interessanti particolari sul basket a Siena, in uno spaccato di realtà che mostra quanto ci sia di radicato oltre la Mens Sana.
Come mai la scelta di Pistoia?
“È stata una scelta molto improvvisa, nel senso che io avevo un contratto con Biella, che era un posto dove stavo lavorando molto bene, che credo sia molto stimolante per chi fa il mio mestiere perché è una realtà estremamente capace di mettere l’allenatore nelle condizioni migliori per farlo. Poi Biella ha effettuato la scelta di modificare il management sportivo, cambiando Marco Sambugaro con Marco Atripaldi. In questa situazione Sambugaro si è ricollocato a Pistoia e lui ha subito manifestato il desiderio di portarmi con sé. Mi sembrava che miglior opportunità di quella di fare la Serie A con un dirigente che già conoscevo e che aveva dimostrato di avere stima nelle mie capacità non ci fosse. A questo poi si abbinava un contesto come quello di Pistoia, che a livello di passione e amore per la pallacanestro credo che abbia pochi eguali in Italia, e quindi è stato poi automatico. Non c’è stato il tempo di fare grosse riflessioni, perché sia per permettere a Biella di fare questo cambio con i tempi giusti, sia per permettere a Pistoia una partenza con l’allenatore in sella e quindi con la possibilità di far la squadra, la scelta è stata fatta in pochi giorni. Devo dire che sono estremamente contento”.
Lei ha vissuto tante stagioni in Serie A2, e da quell’esperienza ha deciso di portare alcuni personaggi che vi avevano avuto un ottimo impatto, come Carl Wheatle e Aristide Landi.
“Io credo che l’A2 abbia tante qualità, tanti talenti, tanti corpi che in questo campionato potrebbero dire la loro. È chiaro che ci vogliono il coraggio e la conoscenza. Io e Sambugaro avevamo il grande vantaggio di avere la conoscenza, che sicuramente anche tanti allenatori e dirigenti di A hanno, ma l’allenare e il giocare contro direttamente penso sia un’opportunità che ti permette di conoscere meglio quella realtà. Noi abbiamo puntato su questi due ragazzi e penso che sia una politica che porteremo avanti anche nei prossimi anni, soprattutto perché Pistoia non ha un portafoglio sufficiente per pensare di puntare su italiani che si sono già affermati in Serie A. La scelta di guardare al mercato di A2 con la consapevolezza di conoscere quel mercato molto bene sia stata una mossa intelligente”.
Peraltro dopo una stagione che, per Pistoia, non era stata positiva.
“Questo è stato un elemento di partenza che subito veniva un po’ dato come di vantaggio, nel senso che molto spesso si dice che per i dirigenti e gli allenatori nuovi venire dopo una stagione perdente è meglio perché è più facile fare bene. La grande frustrazione del pubblico di Pistoia all’inizio è stata un po’ un boomerang nei nostri confronti, perché aveva bisogno di vittorie, era tantissimo tempo che non vinceva una partita in casa e, quando all’inizio abbiamo avuto qualche problema. Credo che in molti tifosi si fosse un po’ materializzato lo spettro di un’altra stagione in cui si ottenevano pochi risultati in casa. Poi, invece, quando abbiamo iniziato a fornire prestazioni convincenti si è creato un gran legame e alla fine credo che, al di là del risultato sportivo, che poi non si sa se si sarebbe raggiunto o meno, la gente fosse contenta di come la squadra giocasse soprattutto in casa, e questo è per noi un motivo di grande orgoglio”.
Verso la “fine” della stagione c’è stato il cambio tra Zabian Dowdell e Randy Culpepper. In che contesto tattico è nata questa necessità?
“Questo è l’elemento chiave, nel senso che molto spesso si fanno cambi in seguito all’insoddisfazione legata al rendimento di un giocatore. Questo è un caso sui generis, perché noi abbiamo perso una partita in casa con Treviso, molto male, a cui avevamo dato un significato molto importante. In quella partita la grande aggressività difensiva di Treviso aveva assolutamente inibito quelli che erano i nostri centri del gioco, Terran Petteway e Jean Salumu. In quel momento, presi da Treviso e con Trieste che aveva fatto tantissime operazioni di mercato, abbiamo, con Sambugaro, staff e società, valutato che era giusto prendersi un rischio per un giocatore che offensivamente poteva dare qualcosa di più dal punto di vista della creazione dei vantaggi e che sicuramente, nei contesti di partita come quella che avevamo appena giocato, in cui le squadre cercavano di metterci sotto in termini di aggressività e fisicità e di uso del corpo. Un giocatore come Culpepper in quella partita avrebbe messo in difficoltà Treviso, perché essere così aggressivi con un giocatore di quella qualità, di quella rapidità, è molto più difficile. Lì abbiamo cominciato le operazioni di trattativa. Poi siamo andati a Roma, vincendo una partita di grande solidità, poi abbiamo vinto quella, secondo me incredibile a livello di qualità del gioco, con Reggio Emilia in casa, e poi l’operazione l’avevamo portata avanti e conclusa. Le ragioni però erano più dietro i problemi offensivi che aveva palesato la partita di Treviso rispetto a quello che era successo poi subito dopo. La realtà è che poi l’impatto di questo giocatore su questa stagione non è valutabile perché penso che la partita di Trieste non abbia espresso contenuti tattici, perché è stata una partita che non aveva senso di essere giocata. Quello che poteva dare Culpepper non lo ha visto nessuno, e neanche io perché in allenamento è chiaro che lui ha avuto un atteggiamento estremamente positivo, ma è evidente che non è riprova di nulla, se non quella di un ragazzo che era venuto a Pistoia con l’atteggiamento giusto”.
Si può ben immaginare lo stato d’animo nell’allenare in un palasport così grande, ma vuoto.
“Io delle partite a porte chiuse o quasi le ho giocate, mi ricordo che giocai a Barcellona Pozzo di Gotto in campo neutro contro la Viola Reggio Calabria, in un contesto abbastanza scarso di pubblico. Mi ricordo partite contro l’Eurobasket Roma a Ferentino perché loro non avevano il campo nella Capitale, in cui si giocava davanti a 200 persone. Io credo che quello sia un elemento di grande dispiacere per tutti, però penso che il lato più sconvolgente di quella partita è stata il viaggio. Noi abbiamo fatto Pistoia-Trieste in un’autostrada che sembrava un deserto. In autogrill c’eravamo solo noi, siamo andati in un albergo che aveva già chiuso i battenti e aveva riaperto solo per noi, i telegiornali non parlavano d’altro, siamo entrati al PalaRubini e ci siamo misurati tutti la febbre, i ragazzi si sono cambiati in due spogliatoi diversi perché dovevano stare distanti un metro l’uno dall’altro per poi dover giocare una partita di basket tutti uno attaccato all’altro, non abbiamo fatto il riconoscimento. Gli elementi che ti allontanavano dalla normalità erano talmente tanti che io credo che nessuno dei giocatori avesse le condizioni emotive giuste per giocare una partita di basket. Ma comunque secondo me un professionista in una situazione di emergenza come questa dev’essere disponibile a giocare partite a porte chiuse. Il tema non è solo quello, perché le porte chiuse sono un problema nel momento in cui mi dici ‘ok, si deve fare un girone d’andata a porte chiuse’. Ma nel momento in cui mi dici che quella partita va giocata a porte chiuse, bisogna saperlo fare, da professionisti. Il problema è tutto quello che c’era intorno a quella partita. Un giocatore che entra in un palazzetto e si deve misurare la febbre, uno che si vede lo spogliatoio della sua squadra suddiviso in due, uno a cui dicono: ‘Guarda, dovete cambiarvi in due spogliatoi perché non potete stare vicini’. E poi, mezz’ora dopo, gli chiedi di fare tagliafuori, di marcare la palla, di stare a contatto con il sudore di una persona che neanche conosci. Penso che questo sia stato l’elemento distorsivo, più del fatto che non ci fossero spettatori”.
A Roma c’è stata una situazione ancora più caotica, perché giravano voci anche di un possibile contagio in spogliatoio nella partita tra Virtus e Dinamo Sassari.
“Io ho parlato con Piero Bucchi e Gianmarco Pozzecco poco prima di giocare. Io penso che la volontà di tutti fosse quella di non giocare quella partita. Il desiderio di tutti era quello che arrivasse una comunicazione che dicesse che si poteva non giocare. Non è arrivata e credo che, in un momento di emergenza, il senso di responsabilità ci abbia portati a dire di fare quello che dicevano andasse fatto, perché era giusto così. Però la sensazione di tutti è che non ci fosse nulla di pallacanestro”.
C’è un particolare curioso: Urania Milano, Casale Monferrato, Virtus Siena, Casalpusterlengo, Biella. Cinque squadre allenate, e tutte in rossoblu.
“A parte Pistoia, la prima biancorossa! (ride) Non ci avevo mai fatto caso, ma è vero. È una nota di colore che è corretta”.
Delle varie stagioni di Biella, quella 2016-2017 vedeva in campo una squadra di ottimo livello, con Mike Hall che dominava. Però al primo turno dei playoff la Verona di Luca Dalmonte andò a vincere per 3-2.
“Questo è lo sport, purtroppo. Io credo che quella squadra avrebbe sicuramente potuto ottenere qualcosina di più. Credo che vincere la regular season e arrivare in finale di Coppa Italia di A2, visti i presupposti della stagione (che erano di tutt’altra entità) sia qualcosa che deve lasciare il segno di qualcosa di importante che abbiamo fatto. Abbiamo battuto il record di vittorie consecutive di un club prestigioso come Biella, poi è chiaro che rimane l’amaro in bocca. Quella serie playoff fu dannata, abbiamo meritato di uscire perché sulle 5 partite Verona è stata migliore di noi. Eravamo sul 2-0, e credo che una squadra con la fiducia come la nostra, che va sul 2-0, vincendo due partite in casa, sia chiamata poi a vincerne almeno un’altra su tre. Quelle che furono poi le situazioni che andarono a determinare le tre sconfitte in fila sono state analizzate in spogliatoio e in privato, e non credo che sia onesto per un allenatore ad analizzare le responsabilità individuale. Fu una serie che perdemmo, rimane la ferita aperta, sul campo meritò Verona, credo che quella squadra meritasse di giocare qualche turno in più per quanto fatto in stagione”.
A proposito della finale di Coppa Italia, che fu persa contro la Virtus Bologna, girò la voce per cui Mike Hall, per i due giorni successivi, sparì per smaltire la rabbia. C’era stato l’ultimo tiro per vincerla. Quanto c’è di vero?
“Io penso che ci sono delle dinamiche interne alla vita degli spogliatoi, delle squadre, dove spesso succedono cose che sono da gestire all’interno. Io sono un allenatore che pensa che la mia onestà intellettuale, il mio rispetto nei confronti dei miei giocatori si manifesta nel lasciare quelle cose al privato delle singole stagioni sportive. Mike finì sicuramente quella finale estremamente arrabbiato, a ragione o a torto. Di sicuro fu una grande frustrazione per lui perderla all’ultimo possesso, come lo fu per tanti altri giocatori e come lo fu per lo staff, poi la situazione fu gestita da chi doveva gestirla e Mike tornò a giocare la partita di Legnano a livelli più che accettabili. Magari fu più la serie playoff a essere l’elemento su cui avrei da recriminare, rispetto al fatto che qualche giocatore possa essersi arrabbiato dopo una sconfitta di un punto che fa parte del gioco”.
Lei ha avuto modo, negli anni di Biella, di allenare per due stagioni Amedeo Tessitori. Quanto è stata importante la crescita del giocatore lì, e quanto è stato forte l’orgoglio nel vederlo arrivare in Nazionale prima e ai Mondiali poi?
“L’orgoglio penso che debba essere tutto di Amedeo, perché è un ragazzo che ha vissuto in carriera degli up e dei down difficili da gestire per chiunque. Il primo anno a Sassari, la delusione lì, poi il presunto rilancio a Cantù e la delusione anche lì. Era un ragazzo che aveva bisogno di certezze tecniche ed emotive. Credo che a Biella le abbia trovate, grazie a una grandissima disponibilità all’ascolto e grazie al fatto che parliamo di un ragazzo di grandissime qualità umane oltre che tecniche. È anche un ragazzo sul quale è stato molto bello e facile lavorare. Io credo che l’orgoglio di quella chiamata debba essere tutto suo, da parte mia e di tutto lo staff di Biella di quegli anni c’è stata grande soddisfazione nel vederlo raggiungere quel livello di competitività”.
Lei ha allenato anche alla Virtus Siena. Com’era allora il rapporto tra Mens Sana, Virtus e Costone, spiegato a un non senese?
“La mia esperienza lì è stata di un anno. Allenai i gruppi Elite della Virtus, e facevo l’assistente di Umberto Vezzosi nei gruppi Eccellenza, che erano pieni di forestieri: c’erano Tessitori, Matteo Imbrò, Riccardo Rovere, Corrado Bianconi. Un gruppo estremamente ricco di gente non senese. I gruppi Elite invece erano proprio l’espressione del basket cittadino. Mi ricorderò sempre i derby Elite Mens Sana-Virtus, con 800-900 spettatori e un grandissimo coinvolgimento della città, delle famiglie, degli amici. Il basket a Siena è di tutti. Uno pensa che in una città come Siena la Mens Sana debba cannibalizzare tutto, ma non è così. A Siena la Virtus ha un’identità, una famiglia attorno che non si manifesta in tifosi o ultras, ma in tutte le famiglie dei bambini che fanno il minibasket. Allora c’erano gruppi doppi per ogni fascia d’età, quindi la Virtus aveva un numero di tesserati incredibile, e tutti questi partecipavano alle partite dei gruppi di punta ed era uno spettacolo meraviglioso. La partecipazione al basket giovanile che ho visto a Siena in quell’anno non l’ho vista in un nessun altro contesto in cui abbia mai lavorato, anche a più alto livello. Per esempio, nel campionato Eccellenza Lombardia, in cui ho partecipato per tanti anni a Casalpusterlengo, non c’era neanche un terzo della partecipazione dei campionati di quegli anni nel senese”.
Anche al netto del fatto che c’era, comunque, una differenza di grandezza dei luoghi.
“Sì, ma il discorso reale è: se giochi una grande classica del settore giovanile lombardo, tipo una Cantù-Milano, non ci sarà mai la partecipazione che c’è per un Mens Sana-Virtus o per un Virtus-Costone. Lì il basket giovanile, al tempo, non so se è ancora così perché sono passati degli anni, era qualcosa di cui parlavano anche i giornali, alla fine della partita c’era l’intervista, e parlavamo veramente di partite Elite. Penso che di quel derby Under 17 Mens Sana-Virtus, che giocai con il mio gruppo Elite, di quei 24 giocatori non ce ne sia uno sopra la Serie C oggi. Parliamo di partite di livello di basket basso, ma agonistico altissimo, che erano veramente eventi della città. Secondo me questo è espressione di quanto la pallacanestro fosse elemento di passione, coinvolgimento pazzesco per i senesi”.
Quali sono le principali differenze che corrono tra Serie A2 e Serie A soprattutto in termini di gestione del gruppo?
“È una domanda a cui ho risposto tante volte perché in tanti hanno avuto questa curiosità, e mi fa piacere. Purtroppo di allenatori che fanno il salto senza vincere il campionato ce ne sono sempre meno. Quello che posso dire è questo: la gestione dello spogliatoio a prevalenza italiana rispetto a quello a prevalenza straniera è evidentemente diverso. In A2, pur con la presenza di due americani, si gestisce uno spogliatoio italiano, in nove casi su dieci. Anche a livello linguistico è importante parlare una lingua straniera, ma ci sono tante fasi della settimana in cui si parla italiano, ci si confronta in italiano, ma al di là di questi aspetti sono più gli stranieri che si adattano al nostro modello culturale. Questa proporzione cambia nettamente in A, dove la squadra è internazionale e dove l’allenatore dev’essere capace di gestire modi diversi di vivere la settimana, l’allenamento, senza pretendere di adattare tutti a un modello che non è sempre così digerito. Quest’anno avevo un australiano, un belga, tre americani e un inglese, con soli quattro italiani (più Wheatle che giocava da italiano pur essendo inglese). Devo dire che da un punto di vista di gestione del gruppo le differenze sono tante. Entrare nello specifico in tantissime cose secondo me è diverso, ma non è la sola differenza. Io m’aspettavo una differenza molto minore nel giocato, ma anche lì è un mondo da esplorare. Non dico però che il basket in A sia più bello o brutto, ma altro. Intanto la produzione dei vantaggi in Serie A è delegata in larghissima percentuale al singolo. Il giocatore di talento produce il vantaggio per la squadra. In A2 ci sono meno giocatori così in grado di produrre vantaggi in modo individuale e quindi il collettivo, molto spesso, è più incisivo sul risultato finale. Altro elemento di diversità è il ritmo di gioco, infinitamente diverso: la capacità di un allenatore di incidere su una gara deve adeguarsi a quel ritmo. La lettura di una partita di A1 o di A2 per un allenatore è come vedere le partite in slow motion o a velocità reale. Quando le vedi al rallentatore è più facile vedere gli errori, quando le vedi invece a un ritmo forsennato, a una velocità di esecuzione simile, è tutto più complicato. Questi sono, in sintesi, gli elementi dove si manifestano maggiormente le diversità: la capacità, la presenza, la quantità di produttori di vantaggi individuali che c’è in A, il ritmo del gioco, la dominanza negli spogliatoi della componente straniera”.
Quali sono gli uomini che l’hanno segnata di più nel percorso di formazione da allenatore?
“Io ho sempre detto una cosa: ho avuto la fortuna di lavorare con tanti allenatori per poco tempo. Dico fortuna perché sono convinto che il grosso rischio di un allenatore in cerca di identità sia quello di legarsi troppo a una figura di riferimento, e quindi di diventare una sorta di copia cartacarbone. Io non ho lavorato con santoni della pallacanestro, ma con buonissimi professionisti e ce li metto tutti. A Casale Monferrato ho visto da vicino Marco Crespi, che per certi aspetti del coaching penso sia il top che c’è in giro. Alla Virtus Siena ho lavorato accanto a Umberto Vezzosi che per quanto riguarda la relazione empatica, l’umanità, il coinvolgimento dei ragazzi da un punto di vista emotivo, penso sia veramente un grandissimo maestro, al di là degli aspetti tecnici, nei quali è comunque un allenatore preparato. A Casalpusterlengo ho lavorato con Marco Calvani, Andrea Zanchi. Nel mio settore giovanile all’Olimpia Milano sono stato allenato da tanti, ho preso qualcosa anche da loro. Io credo che dire chi mi ha segnato di più e di meno sia impossibile, perché io penso e spero di aver saputo prendere qualcosa da tutti. Se invece devo dire la persona che mi ha segnato di più nel mio essere uomo dentro l’allenatore, allora non ho dubbi nel dire mio padre, che però ai più non è conosciuto perché nella vita faceva tutt’altro, ma che sicuramente è una persona che ha segnato il mio essere uomo prima che allenatore, e per essere allenatori credibili penso che sia importante essere anche persone credibili“.
Quali sono stati i giocatori in qualche modo più interessanti da allenare?
“Non voglio fare un torto a nessuno perché tantissimi giocatori mi hanno dato tanto, e se devo pensare a questa domanda mi vengono in mente anche tanti ragazzi che ho allenato nelle giovanili, che magari adesso non sono neanche giocatori, ma mi rendo conto che chi legge trova più interessanti nomi conosciuti. Tra questi, penso di non poter non nominare Marco Venuto, che per me è un modello di onestà intellettuale, di desiderio di vittoria, di come si possa arrivare ad alti livelli anche senza doti tecniche di primissimo livello e come si possa essere determinanti nelle vittorie anche in partite dove le statistiche dicono 2 punti, 1 palla rubata. Poi ho avuto la fortuna di allenare ottime persone e ottimi giocatori. Dei tempi di Biella penso che sia stato bellissimo lavorare per due anni con Amedeo Tessitori, mi sono trovato molto bene. Anche Carl Wheatle per cinque anni, ho una grandissima stima delle sue potenzialità e del suo impatto sulle partite. È però chiaro che devo tanto anche a Jazzmarr Ferguson. Non so quanti americani siano stati tre anni con lo stesso club e lo stesso allenatore. Lui ha dimostrato un attaccamento a quel progetto sportivo che mi è rimasto nel cuore. Se devo pensare a un giocatore straniero cui devo tanto, il suo nome è il primo che mi viene in mente. Anche quest’anno ho avuto giocatori che mi hanno dato tanto. È chiaro che è una stagione mozzata, che non è arrivata in fondo, e quindi penso che il rapporto fosse destinato a crescere ancora e alimentarsi di un risultato sportivo che, poi, va a cementare tutto il percorso fatto assieme”.
Un percorso che era iniziato in maniera difficile, ma che, dopo la vittoria con Venezia, ha visto piano piano mettersi le cose a posto. Pistoia stava attraversando un bel periodo prima dello stop.
“Penso che questo sia normale nella pallacanestro. Purtroppo abbiamo una cultura sportiva, e non solo, dell’immediato, che spesso disturba, guasta i percorsi di miglioramento sportivo. Noi avevamo nuovi il direttore sportivo, l’allenatore, il roster per nove decimi, il secondo assistente, il preparatore fisico, il comparto medico. Gli unici elementi di continuità da un punto di vista manageriale e tecnico erano Gianluca Della Rosa e Fabio Bongi, il mio primo assistente. Attorno a queste due figure era cambiato tutto. È chiaro che quando cambi tutto bisogna avere il tempo di costruire. Abbiamo fatto delle brutte partite a inizio campionato, ma credo che fosse legittimo attenderselo. Abbiamo avuto la forza di resistere, di continuare a pensare alla pallacanestro, a quello che si doveva migliorare di settimana in settimana e poi abbiamo avuto le soddisfazioni di vittorie e performance agonistiche di alto livello”.
Quanto è stata importante la figura di un pistoiese doc come Lorenzo D’Ercole nello spogliatoio?
“Io penso che, per quanto riguarda l’apporto di Lollo, più che la sua pistoiesità abbia dato la sua grandissima conoscenza del gioco e la sua capacità di stare in modo virtuoso dentro gli spogliatoi, perché poi alla fine per quanto riguarda la Pistoia del basket da questo punto di vista Della Rosa fosse molto più il collante tra squadra e tifosi, tra squadra e addetti ai lavori. Lollo è stato un professionista esemplare, ha portato la sua conoscenza del gioco, mi ha aiutato a proporre le cose che volevo aiutandomi a interagire con la squadra ed essere comprensibile a tutti. Questo è stato l’elemento in cui più ha dato il suo contributo, oltre che negli aspetti del gioco, chiaramente. Ma questo vale per tutto”.
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Credit: Ciamillo