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Lorenzo Giustino, tennis: “Il sistema di business ATP non funziona. Sogno di entrare nella top50. L’Italia ha raggiunto la Spagna”

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L’ultima volta che Lorenzo Giustino ha disputato un incontro ufficiale di tennis risale allo scorso 5 marzo, quando la sconfitta in due set contro il taiwanese Jason Jung ne ha sancito l’eliminazione dal Challenger di Monterrey. Poi il dilagare della pandemia, la cancellazione di Indian Wells e lo stop forzato di tutti i tornei quantomeno fino al 12 luglio. Una sosta imprevista che sicuramente non agevola il tennista napoletano (ma ormai trapiantato in Spagna) che, dopo la scorsa stagione estremamente positiva, attendeva questo 2020 con la speranza di poter beneficiare di quella continuità che spesso gli è mancata per poter spiccare il salto tra i primi 100 della classifica mondiale. Lo abbiamo sentito telefonicamente per un’intervista nella quale il numero 153 del ranking ATP ha parlato di questo momento particolare, dei suoi obiettivi futuri e anche di alcune carenze strutturali del prodotto tennis.

Lorenzo, è da ormai più di un mese che vige il lockdown. Dove sei ora e come stai vivendo questo periodo anomalo?

“Io sono a Barcellona con la mia fidanzata, vivo qui da molti anni ormai. Di mattina, ad eccezione della domenica, mi dedico all’allenamento, faccio un po’ di tutto, cerco di mantenere la forma fisica. Di pomeriggio, invece, studio per gli esami, dal momento che frequento la facoltà di Business Management”.

Hai disputato l’ultimo torneo a Monterrey ad inizio marzo. Dove ti trovavi quando è scoppiata l’emergenza?

“Ero in procinto di giocare a Indian Wells, poi il giorno prima del match hanno cancellato il torneo. Ci hanno comunicato la notizia sul tardi, eravamo straniti che non uscisse il tabellone. Io, in realtà, presentivo qualcosa, perché mio fratello è medico a New York e mi aveva informato della situazione. Dopo la notizia della cancellazione, in tanti dicevano che il torneo di Miami si sarebbe disputato a porte chiuse, ma io sapevo che non sarebbe successo e ho deciso di ripartire subito per Barcellona”.

Quanto è difficile allenarsi senza sapere quando si potrà riprendere a giocare?

“Tantissimo, perché non hai motivazione, non hai obiettivi. Io mi alleno per stare bene con me stesso, non potrei stare senza. Si fa quel che si può, ma è difficile pensare di potersi allenare ad alto rendimento. Io sto cercando di perdere peso, sto lavorando tanto sulla resistenza, perché è un aspetto che ho sempre voluto migliorare ma in precedenza non ho mai avuto il tempo per farlo. Non so quando si potrà riprendere a giocare, per adesso mantengo ancora la motivazione, ma è chiaro che più lo stop si prolunga più diventa difficile. Io parlo spesso con l’ATP: loro vorrebbero ricominciare il prima possibile, anche a porte chiuse, ma il problema è di tipo logistico, ossia far spostare i giocatori da una nazione all’altra”.

Come ti immagini il ritorno in campo dopo questi mesi di inattività? Credi che ci potranno essere molti risultati inaspettati?

“Credo proprio di sì. Il problema più grande che affligge i giocatori sono gli infortuni. Io, per mia sfortuna, ho avuto tanti infortuni che mi hanno fermato spesso e per periodi piuttosto lunghi, quindi diciamo che sono abbastanza abituato alle soste. Questo potrebbe essere un fattore positivo per me, perché magari altri giocatori che non si sono mai fermati durante la loro carriera potrebbero avere maggiori difficoltà nel riprendere il ritmo dopo questi mesi di stop”.

Quando avevi sette anni la tua famiglia si è trasferita in Spagna, quindi possiamo dire che tu dal punto di vista tennistico ti sei formato lì. Quali sono le principali differenze tra il movimento italiano e quello spagnolo?

“Il movimento italiano è in forte crescita, ormai credo che abbiamo anche superato quello spagnolo. Tempo fa la Spagna era superiore perché aveva creato un metodo di riferimento e ha sfornato tanti tennisti di alto livello. Oggi l’Italia ha sviluppato un proprio metodo che sta andando bene, come si può vedere dai numerosi giocatori nella top 100. Nel nostro Paese fortunatamente abbiamo un buon tennis privato, ci sono tantissimi tornei e questo fa la differenza, perché dà l’opportunità di giocare e di crescere. Un italiano, se non ha soldi per viaggiare, può giocare sempre nella sua nazione per tutto l’anno e questo è molto importante. A livello di metodo, la Spagna è stata più “guerriera”, ha avuto un boom per diversi anni, ma adesso siamo lì anche noi”.

Il 2019 è stato un anno sicuramente positivo per te, dal momento che hai ottenuto il primo titolo Challenger della tua carriera (ad Almaty) e hai scalato anche parecchie posizioni nel ranking. Cosa pensi che ti manchi ancora per entrare nella top 100?

“L’anno scorso ci sono stato molto vicino, poi purtroppo a Manerbio, due settimane prima degli US Open, sono caduto e mi sono rotto il gomito. Quell’infortunio è stato davvero un disastro, perché era una stagione pienamente positiva ed ero tra i tennisti dei Challenger che probabilmente potevano concludere l’anno tra i primi 100 della classifica. Ribadisco sempre che entrare nella top 100 giocando Challenger equivale ad entrare nella top 10 giocando tornei dell’ATP Tour, perché per fare punti devi ottenere tante vittorie. Ero vicino all’obiettivo, purtroppo l’infortunio mi ha bloccato. Mi serve continuità, credo che se non fossi caduto la fine dell’anno sarebbe stata molto diversa. Durante la scorsa stagione ho giocato solo venti tornei al massimo della forma, mentre negli altri otto avevo problemi fisici ed è difficile raccogliere risultati quando non si è al 100%”.

Dal punto di vista tecnico, quali sono i principali aspetti su cui senti di dover migliorare e sui quali stai lavorando maggiormente?

“Nel corso della mia carriera ho cambiato spesso il mio tipo di gioco. Purtroppo in Spagna, dove sono cresciuto, la mentalità dominante era quella di difendere, ma non è stata mai adatta al mio gioco. Quindi da due anni a questa parte ho fatto numerosi cambiamenti fisici, tecnici e tattici per implementare un gioco più veloce, aggressivo e potente. Infatti stavo andando molto bene, la crescita è stata evidente”.

Tu ti sei formato sulla terra rossa, ma hai ottenuto ottimi risultati anche sul cemento. Qual è la superficie su cui ti trovi più a tuo agio?

“Credo di potermi esprimere alla pari sia sulla terra che sul cemento. Anche se credo che la superficie migliore per il mio gioco sia il cemento lento. Purtroppo in Europa ci si forma su terra perché è l’unica superficie su cui ci si allena. In Spagna è impossibile trovare un campo in cemento, sono soltanto su terra rossa, quindi nasci così. Però negli ultimi anni mi sono accorto che i campi in cemento sono più adatti al mio gioco rispetto ai campi in terra”.

Qual è l’avversario, tra quelli che hai affrontato finora in carriera, che ti ha impressionato di più?

“Raonic. Ci ho appena giocato contro agli Australian Open ed è incredibile. Quest’anno a Melbourne ha abbattuto tutti gli avversari senza alcun problema, fino a quando nei quarti di finale ha incontrato Djokovic. Dopo averlo affrontato, ho guardato tutti i match di Raonic e nessuno riusciva minimamente a contrastare la sua potenza. Poi è arrivato Djokovic e al secondo game del primo set aveva già avuto otto palle break, una roba impressionante”.

Federer, Djokovic, Nadal. Quale tra i Big Three è il tuo preferito e contro chi ti piacerebbe di più giocare?

“Impossibile dire il mio preferito, ammiro tutti i i tre. Sono alieni: la loro capacità di adattamento, la passione, la voglia di migliorarsi sempre sono pazzesche, si vedono raramente anche in tutti gli altri sport. Poi il fatto che siano capitati tre fenomeni di questo tipo nella stessa era è ancor più incredibile. Mi piacerebbe giocare contro tutti e tre, con Nadal magari non sulla terra perché è un incubo. Lo conosco, mi ci sono allenato, ma affrontarlo sulla terra sarebbe troppo frustrante, immagino sia come giocare contro Federer sull’erba”.

Qual è il tuo sogno nel cassetto?

“Il mio sogno nel cassetto è arrivare almeno nella top 50. Ambisco a vincere tornei importanti, entrare nei primi 100 e poi scalare la classifica. A mio avviso, la cosa più importante è vivere senza rimorsi, quindi voglio arrivare a un risultato che mia dia una soddisfazione personale e chiudere la carriera con la consapevolezza di aver espresso al massimo le mie potenzialità”.

Per chiudere, è risaputo che sei anche molto attento alle vicende sindacali del tuo sport e hai spesso contestato la differenza troppo netta, in termini di entrate e di visibilità, tra l’ATP Tour e il circuito Challenger. Come pensi che il prodotto tennis possa essere migliorato?

“Questo è un argomento di cui si sta parlando tanto durante questa crisi, perché la gente si è fermata e ha cominciato a pensare. Si stanno finalmente accorgendo che hanno creato un sistema che non funziona, non è possibile che ci siano tennisti multimilionari mentre giocatori che si trovano dalla posizione numero 200 alla 300 non riescono a vivere se non giocano due mesi. È un problema grave, che riguarda sia la distribuzione dei montepremi sia il metodo di business del tennis. Ci sono tanti giocatori che si stanno muovendo da sotto, mentre da sopra c’è disinteresse, è difficile che ci sia unità d’intenti. Io sono ottimista, credo che la situazione possa migliorare in futuro. Per quanto riguarda il modo, a mio avviso si potrebbe creare un modello di business che dia maggiore risalto al circuito minore. Secondo loro, invece, l’opzione migliore è quella di aumentare ulteriormente i guadagni dell’ATP Tour per poi distribuirli anche ai piani inferiori. Un problema del tennis è che l’organizzazione non è unita, è difficile prendere decisioni comuni e cambiare il sistema”.

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