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Il Grande Milan di Arrigo Sacchi: i trionfi europei e una nuova concezione tattica che ha cambiato il calcio

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Nel 2006 la rivista francese France Football l’ha incoronata come la miglior squadra di calcio del dopoguerra. Per quanto non sia possibile fare paragoni oggettivi tra espressioni calcistiche risalenti a periodi storici distanti tra loro, è innegabile che il Milan di Arrigo Sacchi rientri nel ristretto novero di team che hanno lasciato un’impronta indelebile a livello mondiale e che hanno contribuito in maniera evidente al futuro sviluppo del gioco. Se i risultati ottenuti in appena quattro anni sono enormi (2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali, 2 Supercoppe Europee, uno scudetto e una Supercoppa Italiana), il segno lasciato dal Milan di Sacchi è legato soprattutto a una nuova concezione tattica che ci porta a dividere il passato recente del calcio italiano in un’era pre-sacchiana e un’era post-sacchiana.

Tutto nacque da un’intuizione geniale di Silvio Berlusconi durante la stagione 1986/87. Il Cavaliere, che aveva appena rilevato un Milan a secco di trofei dal 1979, si innamorò del Parma di Arrigo Sacchi, formazione di Serie B che quell’anno sfidò i rossoneri in due occasioni nell’ambito della Coppa Italia: in entrambi i casi il gioco spumeggiante dei ducali permise loro di sbancare San Siro e indirizzò Berlusconi verso una scelta rivoluzionaria, ossia la chiamata di Sacchi al Milan. L’imprenditore lombardo, uomo di un’ambizione smisurata, aveva l’obiettivo di riportare il Diavolo sul tetto del mondo e di farlo attraverso un calcio offensivo e divertente: perciò nell’estate del 1987 non badò a spese, assicurandosi le prestazioni di Ruud Gullit (pagato 13,5 miliardi al PSV) e Marco Van Basten (acquistato per meno di 2 miliardi). Il terzo colpo di spicco fu Carlo Ancelotti, che alla Roma sembrava ormai un calciatore finito e che fu voluto fortemente da Sacchi.

L’arrivo al Milan del “profeta di Fusignano”, al tempo praticamente uno sconosciuto, fu accolto dall’evidente scetticismo degli addetti ai lavori e dal malumore degli stessi giocatori, estenuati dai metodi di lavoro impostati dal nuovo mister, basati su una preparazione fisica sfiancante e sulla ripetizione ossessiva delle fasi di gioco. Celebre la risposta dell’allenatore romagnolo a un giornalista che gli imputava il fatto di non esser mai stato un calciatore: “Non sapevo che per essere un bravo fantino devi prima essere stato un cavallo”. Sacchi si ispirava al calcio totale della Nazionale olandese e ricercava l’applicazione del concetto di “intelligenza collettiva” pretendendo dai calciatori movimento continuo sia in fase offensiva sia in quella difensiva. Il suo 4-4-2 si fondava su un pressing costante e sulla compattezza tra i reparti, con la distanza tra difensori e centrocampisti che non doveva mai superare 25-30 metri.

La rivoluzione voluta da Sacchi dovette fare subito i conti con un iniziale rigetto dei calciatori e la partenza fu a rilento: la sconfitta all’esordio casalingo contro la Fiorentina e la successiva eliminazione ai sedicesimi di finale di Coppa UEFA per mano dell’Espanyol fecero traballare il mister, ma Berlusconi fu estremamente deciso nel confermarlo almeno fino al termine della stagione. Tra dicembre e gennaio le cose cominciarono a cambiare e il Milan iniziò la propria vorticosa rincorsa al Napoli del tridente Maradona-Giordano-Careca. Questo magnifico duello tra due corazzate si decise nello scontro diretto del San Paolo (1 maggio 1988): in una delle partite più belle della storia della Serie A la doppietta di Virdis e la rete di Van Basten decretarono il 3-2 dei rossoneri tra gli applausi del pubblico partenopeo e di fatto regalarono a Sacchi l’unico scudetto della propria carriera da allenatore.

L’anno seguente per tentare l’assalto all’Europa venne acquistato anche il terzo “tulipano”, Frank Rijkaard, costato 5,8 miliardi di lire. Se in campionato i rossoneri non riuscirono a tenere il ritmo dell’Inter di Giovanni Trapattoni, in Coppa dei Campioni furono protagonisti di un cammino dalle mille emozioni. Gli ottavi e i quarti di finale furono estremamente complicati per il Diavolo, che riuscì a sbarazzarsi della talentuosa Stella Rossa di Prosinecki e Savicevic soltanto ai calci di rigore e dell’arcigno Werder Brema di Otto Rehagel con un solo gol di scarto. La semifinale contro il Real Madrid fu uno degli episodi più emblematici del Milan di Sacchi. I Blancos erano considerati praticamente imbattibili al Santiago Bernabeu, motivo per il quale si pensava che i rossoneri sarebbero andati in Spagna per limitare i danni: l’andazzo fu totalmente diverso, con la squadra di Sacchi che giocò all’attacco per tutti i 90′ ottenendo un 1-1 prezioso ma che andava sicuramente stretto per quanto visto in campo. Al ritorno il Milan completò l’opera annichilendo il Real con un perentorio 5-0 e guadagnando così il pass per la finale di Barcellona. La notte del Camp Nou (24 maggio 1989) fu un momento dolcissimo per i tifosi rossoneri, che videro la loro squadra asfaltare la Steaua Bucarest per 4-0 (tutt’ora la vittoria più larga in una finale di Coppa dei Campioni).

Nella stagione 1989/90 il Milan mise in bacheca la Supercoppa Europea (superando il Barcellona) e la Coppa Intercontinentale (vinta contro i colombiani dell’Atletico Nacional con un gol di Evani ai supplementari). Quel Milan fu a un passo dall’aggiudicarsi tutte le competizioni disponibili, ma sul territorio nazionale dovette fare i conti con le cocenti delusioni del campionato (perso in volata in favore del Napoli di Maradona) e della Coppa Italia (persa in finale contro la Juventus). In compenso, la Coppa dei Campioni fu ancora preda della squadra di Sacchi, che riuscì a difendere il titolo eliminando Real Madrid e Bayern Monaco durante il tragitto e sconfiggendo il Benfica nella finale di Vienna (23 maggio 1990).

L’ultimo anno di Sacchi sulla panchina del Milan (tolta la successiva e breve parentesi del 1996/97) portò in dote la seconda Supercoppa Europea, conquistata nel doppio confronto tutto italiano con la Sampdoria, e la seconda Coppa Intercontinentale, vinta con un netto 3-0 sui paraguayani dell’Olimpia Asuncion. Furono gli ultimi squilli di una squadra leggendaria, non a caso passata alla storia con il nome di “Immortali”.

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antonio.lucia@oasport.it

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Foto: LaPresse

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