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Atletica, calcio, basket, canoa velocità e boxe: le grandi malate (senza rimedio?) dello sport italiano. E il ciclismo…

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Lo sport italiano, pur lontano dai fasti degli anni Novanta e Duemila, continua a mantenersi al vertice internazionale: dal 1996 il Bel Paese figura nella top10 delle Olimpiadi estive, il settore invernale è tornato a splendere dopo anni bui, il mondo paralimpico ha raggiunto un’eccellenza straordinaria ed anche i motori hanno ritrovato competitività. Poche nazioni (forse nessuna) vantano l’eclettismo storico e tradizionale dell’Italia.

Non mancano, purtroppo, le zone d’ombra. Inquietanti buchi neri in cui si è piombati e da cui non si intravede il rimedio per risalire: atletica, basket, calcio, canoa velocità e pugilato sono le grandi malate dello sport tricolore. Presto potrebbe aggiungersi anche il ciclismo per quanto riguarda le corse a tappe.

Partiamo da due discipline accomunate dal medesimo problema: calcio e basket. In entrambi i campionati di Serie A i giocatori italiani sono ormai come i koala: in via di estinzione. La marea straniera travolge gli azzurri e, in un’epoca forse neanche tanto lontana, non è neppure escluso che i ct debbano attingere alla Serie B per le convocazioni (nella pallacanestro questo già accade, se pensiamo ad esempio ad Amedeo Tessitori che, dalla A2, ha giocato l’ultima sfida tra Olanda ed Italia per le qualificazioni ai Mondiali 2019).

Il 2006 ha rappresentato l’apogeo di una generazione irripetibile per il calcio, salita sul tetto del mondo all’ultima occasione disponibile. Era un’Italia di fuoriclasse, in tutti i reparti: Buffon, Cannavaro, Zambrotta, Pirlo, Del Piero, Totti, Inzaghi…Il trono mondiale, splendente e dorato, ha simboleggiato anche l’avvio del crepuscolo. Prima le eliminazioni precoci alle rassegne iridate del 2010 e del 2014, poi la Grande Vergogna della mancata qualificazione a Russia 2018 a 60 anni dall’ultimo precedente. Un baratro profondo, nel quale si continua a precipitare. L’avvio della gestione Mancini, senza usare mezzi termini, ha messo in mostra una squadra ancora peggiore rispetto a quella di Ventura, non a caso ad un passo dalla retrocessione nella neonata Nations League. Una Nazionale senza tecnica ed incapace anche solo di costruire occasioni da gol. Ormai, per essere convocati, basta quasi essere semplicemente in possesso del passaporto italiano, tanto è ridotta la possibilità di scelta del ct. Questa Italia è davvero una compagine di terza fascia, che d’ora in poi faticherà contro chiunque e dovrà festeggiare come un trionfo anche una semplice qualificazione per un Europeo o un Mondiale. Una storia che ricorda il triste declino dell’Ungheria, una nobile decaduta finita nell’oblio dopo aver scritto pagine di storia tra gli anni ’30 e ’50. Possibilità di uscire dalla crisi? Attualmente nessuna. La sensazione è che la situazione possa ulteriormente peggiorare. Al di là degli stranieri, gli italiani trovano poco spazio in Serie A perché oggettivamente non all’altezza. E’ un problema che nasce dalla base, da chi insegna calcio ai bambini. Servirebbe un progetto ad ampio raggio, come accaduto in Germania, Francia e Spagna, per formare nuovamente calciatori degni di questo nome. In una società dove conta solo il risultato immediato, nessuno sembra disposto a poter aspettare i giovani italiani. Ed anche squadre come la Juventus, per anni serbatoio imprescindibile della Nazionale, hanno mutato completamente approccio affidandosi quasi in toto a giocatori provenienti dall’estero.

Anche il basket vive da ormai oltre 15 anni in un limbo di frustrazione ed anonimato. Dopo i tre podi in quattro edizioni degli Europei tra il 1997 ed il 2003 (un primo, un secondo ed un terzo posto), una generazione d’oro concluse un ciclo formidabile con l’argento alle Olimpiadi di Atene 2004. Fu quella l’ultima partecipazione a cinque cerchi, così come la selezione tricolore è assente dai Mondiali da 12 anni (nel 2006 partecipò solo grazie ad una wild-card). Eppure, a differenza del calcio, il ricambio sembrava non mancare, anzi. I vari Danilo Gallinari, Andrea Bargnani, Marco Belinelli e Luigi Datome lasciavano presagire un’era di trionfi che non avrebbe di certo lasciato rimpiangere la precedente. Nulla di tutto questo. La generazione dei giocatori NBA verrà ricordata come quella degli incompiuti. Tra infortuni e rinunce, raramente l’Italia ha potuto schierare la propria miglior formazione e, in verità, questo gruppo non è mai diventato una squadra, ma solo una semplice unione di individualità. Negli ultimi anni il basket di è evoluto ed i nostri ct hanno sempre dovuto fare i conti con due lacune croniche e determinanti: l’assenza di centri e play-maker di caratura internazionale. Sovente la Nazionale deve soccombere per questione di stazza, senza contare che molti giocatori non possiedono l’esperienza internazionale necessaria per competere ai massimi livelli. Come nel calcio, il problema sta alla base nella formazione delle nuove leve. Rispetto al calcio, tuttavia, sono state attuate delle regole per tutelare i giocatori italiani: dalla prossima stagione ogni squadra sarà obbligata a schierare almeno la metà degli azzurri in campo (le formule sono 5+5 o 6+6). Un tentativo apprezzabile, ma siamo sicuri che i cinque titolari in campo non saranno tutti stranieri?

Altra malata cronica è l’atletica. L’ultimo oro mondiale risale addirittura al 2003, quando Giuseppe Gibilisco trionfò nel salto con l’asta con 5,90 metri, tutt’ora record nazionale. Ai Giochi Olimpici non saliamo sul gradino più alto del podio dal successo di Alex Schwazer nella 50 km di marcia nel 2008. Anche qui, come per basket e calcio, l’inizio degli anni ’10 è coinciso con una vera e propria eclissi di risultati. Due bronzi nel 2011 (Elisa Rigaudo nella marcia, Antonietta Di Martino nel salto in alto), un argento nel 2013 (Valeria Straneo nella maratona), un bronzo nel 2017 (Antonella Palmisano nella marcia): la miseria di quattro podi negli ultimi quattro Mondiali, con lo ‘zero’ dell’edizione 2015. Il Bel Paese ha chiuso senza metalli preziosi anche le Olimpiadi di Rio 2016. Il 2018, infine, ha certificato di un’Italia incapace di emergere anche in un contesto europeo, come testimonia il 16° posto nel medagliere della rassegna continentale (ma sarebbe stato ben peggiore senza l’oro a squadre della maratona). Senza entrare nel dettaglio delle individualità, resta un dato di fatto sconcertante: al termine di ogni rassegna internazionale, gli organi federali tendono sempre a tracciare bilanci positivi, negando la realtà lampante ed incontestabile dei numeri. Questo ha portato alle dimissioni di Stefano Baldini: “Agli Europei, nella gestione della squadra, sono stati commessi errori clamorosi, basti pensare alla 4×400 femminile che con un’altra gestione avrebbe vinto e invece non è salita sul podio. Per serietà andrebbero ammessi. Invece, come già in passato, ho sentito solo stilare bilanci positivi e parole di difesa del proprio operato. Non è così che si cresce. L’autocritica deve essere schietta e fatta a caldo“. Parole sincere, che lasciano intendere il perché tutto resti immutato da ormai un decennio: come si può cambiare se manca una reale volontà di farlo?

Se calcio, basket ed atletica sono spesso sotto i riflettori, si parla invece troppo poco di canoa velocità e pugilato. Anche qui l’Italia ha toccato il fondo (forse…Il calcio ci sta insegnando che si può sempre fare peggio…). L’ultima medaglia ai Mondiali in una specialità olimpica nella canoa risale addirittura al 2009: Josefa Idem fu terza nel K1 500. Per trovare gli ultimi podi a cinque cerchi bisogna invece tornare al 2008, quando la stessa Idem fu argento ed i sorprendenti Andrea Facchin ed Antonio Scaduto agguantarono il bronzo nel K2 1000 metri. L’Italia, dopo le vittorie a grappoli di inizio Millennio con Antonio Rossi e Josefa Idem, si è abituata alla mediocrità. Negli ultimi anni è cresciuto esponenzialmente il settore della canadese, ma non ancora a tal punto da giocarsi una medaglia tra Mondiali ed Olimpiadi (lo stesso Carlo Tacchini, il talento recente con maggiori ambizioni, ha subito una battuta d’arresto nell’ultima rassegna iridata). Il kayak arranca in posizioni di rincalzo, ponendosi come obiettivo massimo il raggiungimento della finale, mentre la squadra femminile non riesce in alcun modo ad essere competitiva. Ad oggi risulta arduo pensare che la canoa velocità italiana possa ambire almeno ad una medaglia a Tokyo 2020. Nemmeno l’attuale dt Guglielmo Guerrini, marito ed allenatore di Josefa Idem, è riuscito per ora ad imprimere una svolta attesa ormai da due lustri.

E’ notte fonda anche per la boxe. Se il mondo del professionismo è pressoché scomparso da quasi 20 anni in Italia, dal 2007 era iniziata una vera e propria epoca d’oro per i dilettanti. Roberto Cammarelle e Clemente Russo sono nella storia di questo sport, ma anche Vincenzo Picardi, Domenico Valentino e Vincenzo Mangiacapre hanno contribuito a suon di risultati a mantenere per anni l’Italia nel gotha planetario. L’ultimo sussulto dei veterani si concretizzò ai Mondiali 2013: Russo conquistò il suo secondo oro nei pesi massimi, Cammarelle e Valentino salirono sul gradino più basso del podio. Da allora, il buio. Le medaglie sono diventate una chimera sia nelle due successive rassegne iridate sia ai Giochi di Rio 2016. I ricambi, per qualità tecniche ed umane, non si avvicinano neanche minimamente ai predecessori. Nel volgere di qualche stagione, l’Italia è passata letteralmente dalle stelle alle stalle. Qualche giovane c’è, anche se molti sono sopravvalutati. Non va meglio in campo femminile, dove la compagine azzurra è arretrata vistosamente da quando anche questa disciplina è entrata a far parte del programma delle Olimpiadi. La dispersione dei talenti rappresenta il nodo più grave: emblematico l’esempio di Irma Testa, fenomeno nelle categorie giovanili che da ormai due stagioni non produce risultati di rilievo nelle più importanti manifestazioni internazionali.

Calcio, atletica, basket, canoa velocità e pugilato sono dunque le cinque grandi malate dello sport italiano. Presto potrebbe aggiungersi una sesta disciplina: il ciclismo su strada. Qui, tuttavia, va fatta una distinzione. L’Italia è tornata al vertice nelle corse di un giorno, come non a caso testimonia il secondo posto nel ranking Uci, ad un soffio dal Belgio. Che ne sarà però delle grandi corse a tappe? Vincenzo Nibali, sfortunatissimo al Tour de France, viaggia ormai verso i 34 anni e, forse, potrà rivelarsi competitivo ancora per un paio di stagioni. Fabio Aru è entrato in un tunnel senza luce e non sarà affatto semplice uscirne: il timore è che il sardo, sebbene ancora giovane (classe 1990), si sia già messo alle spalle la parte migliore della carriera. Alle spalle di Nibali e Aru c’è il vuoto assoluto. Nessun corridore, tra i giovani italiani, è competitivo non solo per la vittoria, ma neppure per la top5 in un grande giro. Tra Tour e Vuelta, nessun azzurro chiuderà nelle prime 10 posizioni. In futuro, senza Vincenzo Nibali, questa diventerà una funerea abitudine.

federico.militello@oasport.it





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