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Volley, Leo Lo Bianco: “Vi racconto come ho sconfitto il tumore: volevo solo tornare a giocare”. La battaglia vinta dalla palleggiatrice

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Leo Lo Bianco ha rilasciato una lunga intervista a Sport Week, il magazine settimanale di Gazzetta dello Sport. La nostra palleggiatrice, pilastro della Nazionale che trionfò ai Mondiali 2002, si è raccontata a tutto tondo e si è soffermata a lungo sul tumore che ha scoperto durante la rassegna iridata 2010 riuscendo poi a sconfiggere il male “usando anche la pallavolo come stimolo ma anche come cura“.

In Giappone l’occhio è caduto lì, quasi una buccia d’arancia, non saprei descriverlo diversamente. Una grinza. Una piega insolita nel seno. E quando ho toccato c’era qualcosa di estremamente duro. Non l’ho detto neanche al medico della squadra. Solo a due compagne. Perché? Forse perché se non ne parlavo non esisteva il problema. Il Mondiale finì il 13 novembre e il 1° dicembre sono stata operata. Appena tornata, ecografia, ago aspirato, sono finita da Veronesi che ha confermato la diagnosi di tumore“.

C’era stata anche la possibilità di chiudere con il volley: “Veronesi è stato molto onesto, pur se con modi gentili. Mi ha illustrato subito le possibilità. Se operando avessero trovato metastasi e già un’estensione di un certo tipo, lo sport me lo potevo dimenticare. Per fortuna con le tecniche più avanzate possono esaminare quello che loro chiamano il linfonodo sentinella praticamente in sede di operazione. Previdero anche la presenza di un chirurgo plastico in caso si fosse resa necessaria un’asportazione del seno estesa“.

L’alzatrice di Casalmaggiore, al momento ferma per un infortunio alla spalla, ha spiegato le sue reazioni e sensazioni: “Non era un’abitudine quella di controllare il seno, è stato casuale. Avevo 30 anni. I controlli fissi arrivano dopo. Io poi non avevo precedenti di cancro al seno in famiglia, quindi non ci pensavo proprio. Ora consiglio caldamente a tutte almeno di guardarsi, di guardarsi attentamente. A me è andata bene, io l’ho visto, era in una posizione in cui si faceva notare, non sempre è così. Poi ho reagito a step, direi. Prima il trauma di sapere la diagnosi, poi l’operazione sapendo che al risveglio sarebbe potuto succedere di tutto, quindi il sollievo dopo l’intervento perché si era verificata l’ipotesi meno drammatica. Hanno studiato la terapia migliore per me. Radioterapia tutti i giorni, facevo avanti e indietro da Milano, e poi per mesi una cura ormonale perché l’origine del cancro era lì. Praticamente mi hanno messo in menopausa forzata. Mi ricordo quel periodo connesso a una stanchezza infinita e alla sensazione di non avere più il mio corpo“.

La pallavolo è stata però fondamentale: “Durante la radioterapia mi avevano sconsigliato di andare in palestra. Ma io ci andavo tutti i giorni. Ovviamente non è che facessi chissà che. La radioterapia ti brucia la pelle, faceva male. Facevo esercizi leggeri e stavo con le ragazze. Parlavamo di altro, della squadra“.

Due mesi dopo l’operazione, però, Leo era ancora in campo: “Volevo che tutto fosse molto veloce, volevo ricominciare. Ho usato lo sport come stimolo ma anche come cura. Non volevo farmi schiacciare dal peso delle cure che ti logorano fisicamente. Mi sono convinta che si poteva fare. Fisicamente facevo una fatica immensa, però gli allenamenti mi aiutavano a smaltire gli effetti collaterali. Ho avuto un grande aiuto dalla Foppapedretti Bergamo e dagli appassionati. Ho ricevuto un grande affetto“.

Dopo l’emergenza la vita della Lo Bianco è continuata a pieno regime:Sono andata in Turchia a giocare. Dovevo continuare i controlli ma questo non mi ha fermata, ho trovato un oncologo che mi seguisse là. Devo dire la verità: all’inizio avevo molta più ansia per i controlli, mi facevo visitare anche più spesso del dovuto. Poi piano piano è passata. Però va bene così, piuttosto che essere troppo superficiali…“.

Il consiglio per chi dovesse scoprire di avere un tumore: “Di trovare una motivazione. Per me non esisteva che questo tumore mi impedisse di giocare a pallavolo. C’è chi ha la famiglia, i figli, il lavoro, non importa. Basta che ti tenga concentrato. Gli direi di non lasciarsi sopraffare dalle cure, da tutto il contorno che purtroppo spesso diventa predominante. La cicatrice è lì dove c’è il pettorale. Non ho corso rischi particolari. Certo il percorso di recupero è stato lungo prima di rientrare in squadra“.

 





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