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Hockey prato, Giulio Ferrini: “L’hockey inglese è completamente diverso. Io e mio fratello uniti per lo sport”

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Classe 1992, una vita a giocare ad hockey prato. Stiamo parlando di Giulio Ferrini, attaccante del Southgate e della nazionale maggiore. In un’intervista esclusiva ci racconta la sua carriera, i suoi viaggi, lo stato dell’hockey italiano e la differenza tra culture hockeistiche con le altre nazioni.

Come hai iniziato a giocare ad hockey?

Ho iniziato da piccolissimo, a 4 o 5 anni, sulle orme di mio fratello Luca. Silvana Lo Giudice e Daniele Taglioli stavano rifondando l’hockey a Pisa partendo dai giovanissimi: all’inizio erano attività di psicomotricità, poi siamo passati all’hockey indoor e, dal 2004 (con la costruzione del campo in sintetico), su prato.

Qual è il tuo ruolo?

Nella mia carriera ho ricoperto soprattutto ruoli offensivi, sia in attacco sia a centrocampo. Comunque nell’hockey i ruoli sono molto meno statici che in altri sport, e quest’anno mi sono ritrovato a giocare anche terzino per il mio club in Inghilterra!

Come mai la scelta di andare all’estero?

A 16 anni ho avuto l’opportunità di andare a vivere a Vancouver, in Canada. È stato difficile salutare i compagni di squadra e di scuola, ma sapevo di andare a giocare un hockey di livello notevolmente più alto, e che questa esperienza, anche dal punto di vista scolastico, mi avrebbe aperto molte porte in futuro.

Come ti sei ambientato?

Tutte le transizioni sono difficili: nuove abitudini, amici, professori, divertirmi di allenamento, nuovi allenatori cui dimostrare quello che vali. Però per uno sportivo queste sono le sfide più belle, e quelle che ti fanno crescere di più. Per fortuna a Vancouver sono stato accolto a braccia aperte, e ho trovato un allenatore che mi ha dato tantissima fiducia. Anche i compagni di squadra, fra cui 3 ex olimpionici, mi hanno aiutato a crescere di livello, dandomi consigli e seguendomi come fratelli maggiori.

Sei riuscito a combinare al meglio lo studio con lo sport?

Sono sempre stato ben conscio del fatto che lo studio sia la cosa più importante, ed ho appena finito la specialistica in ingegneria ambientale allo University College London. Per fortuna l’hockey non richiede tantissimo tempo: persino i migliori club in Europa si allenano solo 2-3 volte a settimana, cui vanno aggiunte le sedute di palestra e corsa.

Ora in Inghilterra: come ti trovi? L’ambiente inglese è (domanda scontata) migliore di quello italiano? Perché?

L’hockey in Inghilterra è proprio un altro mondo rispetto all’Italia, ma anche al Canada. È uno sport con grande tradizione e molto praticato, direi l’equivalente della pallavolo o del basket in Italia, tanto che capita molto spesso di vedere persone in metro o per strada con il “portamazze”. Solo a Londra ci sono circa una trentina di club, tutti con almeno 3-4 squadre maschili, 3-4 femminili, più tutte quelle giovanili. Anche le università hanno squadre di hockey, per esempio la mia università (che non ha grande tradizione sportiva) ha 3 squadre femminili e 4 maschili. Con questo tipo di numeri, è normale che il livello sia più alto.

Qual è il tuo club di appartenenza? Come procede la stagione?

Io gioco per il Southgate, e quest’anno siamo stati promossi dalla East Conference alla Premier League (la massima divisione inglese, dove militavamo l’anno scorso). È stata una stagione piena di soddisfazioni, dopo un lungo testa a testa con Holcombe, dove giocano Barry Middleton (capitano della nazionale Inglese), Dan Fox (olimpionico di Londra 2012) e molti altri giocatori di calibro internazionale. Alla fine l’abbiamo spuntata per un solo punto!

Come vedi l’hockey italiano?

In un’analisi dell’hockey italiano bisogna partire separando lo sport femminile da quello maschile, poiché stanno attraversando due periodi diametralmente opposti. Nell’hockey femminile abbiamo una nazionale che sta portando a casa risultati di livello molto alto, con l’ambizione realistica di partecipare ad un mondiale o un’Olimpiade nei prossimi 4 anni. Purtroppo, questa crescita non è per niente rispecchiata nel livello del campionato italiano: ci sono solamente 21 società iscritte ai campionati senior, e molte di queste sono costrette a pagare atlete straniere semplicemente per arrivare a schierare 11 giocatrici! Nel settore maschile invece abbiamo un campionato con molte più squadre (ben 58), ma un livello di hockey che negli ultimi anni sta scendendo. La nazionale si ritrova per la seconda volta negli ultimi 4 anni nella terza divisione europea, e il sogno olimpico diventa sempre più impossibile. Io sono fermamente convinto che in Italia ci siano i giovani di talento per consentire una risalita del movimento, ma troppi non raggiungono il proprio potenziale, o per scarsa abilità degli allenatori, o perché non gli è data fiducia, oppure perché smettono di giocare. Nelle nazionali giovanili me la sono giocata alla pari – o quasi – con atleti inglesi, irlandesi, francesi e austriaci che ora ambiscono ai Mondiali o alle Olimpiadi. Purtroppo, in Italia, nella transizione dall’hockey giovanile alla prima squadra, le responsabilità passano ai bastoni dei giocatori stranieri (argentini, egiziani, indiani), da cui ci si aspetta che risolvano la partita. Il risultato è un campionato d’individualità (spesso straniere) invece che di squadre, e a risentirne sono proprio i giovani italiani che finiscono a ricoprire ruoli secondari.

L’anno scorso c’è stata delusione nel clan azzurro per un Europeo e un’Universiade al di sotto delle aspettative: le tue opinioni?

Secondo me alle Universiadi abbiamo ottenuto risultati al di sopra delle aspettative. Siamo arrivati all’ottavo posto, giocandocela con nazioni con una tradizione hockeistica molto importante, come Sud Africa e Giappone, e vincendo le partite che dovevamo vincere. L’Europeo invece dal punto di vista dei risultati è stato un fallimento. Forse siamo arrivati scarichi dopo un mese e mezzo di attività molto intensa, e abbiamo anche pagato qualche infortunio e assenza dell’ultimo momento. Eravamo una squadra molto giovane e abbiamo pagato la nostra inesperienza nei momenti chiave, buttando via punti che ci avrebbero potuto garantire la permanenza nella seconda divisione. È stato un vero peccato perché il percorso iniziato con l’allenatore Fernandez aveva portato senza dubbio ad una crescita dal punto di vista tecnico-tattica di tutto il gruppo, ma purtroppo sul campo i risultati non si sono visti.

Come vedi l’arrivo di Riccardo Biasetton alla guida della nazionale? Obiettivi per questo 2014?

Riccardo è parte del settore squadre nazionali da tantissimo tempo, e mi ha già allenato diverse volte nelle nazionali giovanili. Conosce l’hockey italiano e gli atleti della nazionale molto bene, ed ha seguito tutti gli avvicendamenti degli ultimi anni, ricoprendo anche il ruolo di collaboratore con Fernandez. Ha subito approcciato il gruppo con una mentalità abbastanza nuova, e comunicando molto con gli atleti. Purtroppo abbiamo a disposizione poco tempo insieme per prepararci alla prima fase di qualificazione alle Olimpiadi che si terrà in Portogallo a Settembre, ma l’obiettivo è senza dubbio il passaggio al secondo turno.

Ultima domanda: qual è il tuo rapporto con tuo fratello Luca, anche lui giocatore?

Io e Luca siamo cresciuti giocando insieme, e c’è sempre stata ovviamente grande intesa in campo. Poi da quando sono andato in Canada abbiamo intrapreso strade diverse, per poi ritrovarci da avversari un paio di anni fa in Inghilterra, quando lui giocava per il Reading. Abbiamo anche giocato contro, pareggiando 2-2! Abbiamo giocato insieme in nazionale under 21, e nella maggiore. Adesso lui vive in Belgio, ma parliamo spesso di hockey, mandandoci video e link ad articoli o interviste recenti. La settimana scorsa siamo andati insieme a vedere le finali della EuroHockey League, la Champions League dell’hockey, dove abbiamo incontrati diversi amici. Siamo persone abbastanza simili sotto alcuni punti di vista, ma molto diversi sotto altri, ma senza dubbio l’hockey è una grande passione che ci unisce.

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 gianluca.bruno@olimpiazzurra.com

 

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