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Sci di fondo, tempo di ricostruzione: da Sochi il movimento deve ripartire

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Forse, ora, si ricomincerà a fare sul serio. Forse, dopo uno zero che mancava da Sarajevo 1984, lo sci di fondo italiano si redimerà e si interrogherà sugli errori commessi nell’ultimo discutibile quadriennio olimpico, quando si sono poste le basi per un’Olimpiade di così basso profilo, da cui gli azzurri degli sci stretti tornano senza una medaglia, proprio come sette edizioni fa. E nessuno probabilmente, dopo i fasti degli anni ’90, si aspettava un simile regresso.

Sochi, dunque, può rappresentare un punto di rottura rispetto al recente passato, l’ideale spartiacque tra la deficitaria gestione post-Vancouver (ma anche post-Torino, per certi aspetti) e un’ipotetica completa rinascita del fondo nostrano. Sprofondare ulteriormente, d’altronde, appare un’impresa davvero ardua per un movimento rimasto talmente abbagliato dalle gesta dei fuoriclasse esplosi negli ultimi due decenni da sottovalutare clamorosamente la progettazione per il futuro, i ricambi da affiancare gradualmente ai pilastri della Nazionale. Gli eredi di gente come Valbusa, Zorzi, Di Centa, Piller Cottrer, Follis e Longa (per citare i più recenti, ma senza dimenticare chi li ha preceduti) non nascono evidentemente da un giorno all’altro, ma l’alibi di non aver avuto l’adeguato materiale umano per dare quanto meno una degna continuità ai risultati raggiunti dai sopraccitati, semplicemente, non può reggere. Il profondo buco generazionale delle annate del 1980 (con dovute eccezioni), di fatto, è ingiustificabile. In molti, però, lo hanno percepito soltanto dopo i progressivi ritiri degli ultimi baluardi delle generazioni d’oro, quando la piramide si è lentamente sgretolata fino a lasciarne le sole fondamenta, su cui naturalmente si è potuto intervenire con poca qualità, creando in sostanza gli scenari delle recenti stagioni.

La spedizione russa, inoltre, ha portato alla luce le tensioni interne alla squadra maschile, il settore in cui la ricostruzione appare maggiormente laboriosa e ricca di incognite. La miccia è stata accesa da Federico Pellegrino e Dietmar Nöckler nel dopo-gara della team sprint, quando soprattutto il valdostano ha invocato un maggiore rispetto dei propri ruoli in squadra a cui ha fatto eco l’altoatesino, scoperchiando un vaso di Pandora che non potrà non lasciare strascichi. Due nomi, peraltro, non a caso, in quanto saranno proprio loro a dover guidare l’Italia maschile nel fondo verso Pyeongchang 2018, facendo valere il proprio talento nelle sprint e nelle gare in tecnica classica. Entrambi presentano notevoli margini di miglioramento e lo stesso Pellegrino è già in lotta per conquistare la coppetta di specialità, riconoscimento a cui potrà ambire senza timori reverenziali nel corso degli anni. Peraltro, Chicco appare il candidato principale a sfatare il tabù vittoria in Coppa del Mondo, dove l’Italia non svetta dal febbraio 2010, quando vinse Giorgio Di Centa. Tra le tante ombre, però, Sochi ha anche irradiato per la prima volta la classe e la tempra di Francesco De Fabiani, classe 1993 e possibile futura stella polare del movimento. Come Nöckler, come Mattia Pellegrin e come Maicol Rastelli, altro interessante prodotto classe 1991, anch’egli avvezzo più al classico che allo skating, dove al momento non si intravedono grandi speranze (ma De Fabiani potrà far bene). Chi potrà crescere in maniera esponenziale nelle prossime stagioni è Enrico Nizzi (classe 1990), sprinter dalle indubbie qualità e in rampa di lancio. E’ qui, però, che dovrà emergere la bontà del lavoro di allenatori e tecnici federali, poiché soprattutto dalle loro mani passerà il futuro delle svariate giovani promesse italiane.

Se tra gli uomini il cartello ‘lavori in corso’ deve ancora essere posizionato, la nazionale femminile appare già ben avviato nel suo viatico verso la redenzione. I ritiri contemporanei di Arianna Follis e Marianna Longa nel 2011 sembravano aver inferto il colpo di grazia all’intera squadra, improvvisamente senza i fari che avevano illuminato gli anni post-Belmondo/Paruzzi. Dopo lo smarrimento iniziale, però, le donne hanno trovato la giusta quadratura del cerchio per reagire e risalire passo dopo passo, batosta (inevitabili) dopo batosta, differentemente, invece, dal settore maschile, dove l’aura di immortalità di Giorgio Di Centa ha ulteriormente indotto ad adagiarsi sugli allori l’ambiente, senza curarsi troppo di guardare oltre. In questo senso, l’addio in massa delle due ex-fondiste azzurre (ma anche di Magda Genuin), ha accelerato il processo di ricambio generazionale che, seppur lentamente, sta iniziando a produrre i primi frutti, grazie alla costante crescita di Marina Piller (classe 1984 ma ancora in tempo per togliersi soddisfazioni) e di Debora Agreiter e all’esplosione delle sprinter Gaia Vuerich e Greta Laurent in Coppa del Mondo, grandi speranze per tornare il prima possibile alla vittoria in Coppa. Scalpitano anche Lucia Scardoni e Ilaria Debertolis, mentre dall’Opa Cup emergono a suon di vittorie due talenti puri e genuini come Francesca Baudin e Giulia Sturz (bronzo nella sprint ai recenti Mondiali U23), diamanti da sgrezzare e da gestire con cura, per non rischiare di dilapidare anche queste speranze, anche questa generazione.

Serviva tornare a secco di medaglie (peraltro preventivabile alla vigilia) dalla spedizione olimpica per dare una scossa? Serviva la delusione e la frustrazione per dei risultati non raggiunti per far partire – si presume – la ricostruzione? Probabilmente sì. D’altronde, sebbene la Coppa del Mondo offra maggiori indicazioni rispetto alle Olimpiadi, la cassa di risonanza di un grande evento come i Giochi è sensibilmente maggiore e non concede vie di uscita. Forse, ora, si ricomincerà a fare sul serio.

Foto: Fisi

daniele.pansardi@olimpiazzurra.com

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