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‘Cogito, ergo sport’ – Reinhold Messner: la grande scalata

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“Se si arrivasse a riconoscere che le vere possibilità dell’alpinismo sono nelle rinunce e non nella tecnica, gli alberi della cuccagna tornerebbero a essere montagne, le montagne cattedrali e i turisti della montagna tornerebbero a essere alpinisti”.
(Ralf-Peter Martin)

Non ha bisogno di presentazioni l’alpinista italiano che per primo scala l’Everest senza aiuto dell’ossigeno. Il suo è il respiro che ha scaldato l’Antartide, sue le gambe che hanno traversato la Groenlandia e i piedi che hanno affondato nel Deserto del Gobi. È la leggenda dell’alpinismo Reinhold Messner, il piccolo gigante delle montagne, signore della terra, figlio dei cieli.

Reinhold Messner

La natura selvaggia è sempre stata fonte di fascino e di ispirazione per Messner: silenzio, vastità, inaccessibilità. La montagna, nella sua assoluta semplicità, nella vastità di luce e di suoni libera la mente e “tu sei invaso dalla profonda, potente presenza della vita” (dal film Sette anni in Tibet). Ricorda la rappresentazione kantiana del sublime, l’infinitamente grande, senza confini; sublime è ciò che supera l’immaginazione, che va al di là di ogni comprensione: smisurato, come un deserto; incommensurabile, come l’oceano; inaccessibile, come la montagna. Ed è proprio Messner, colui che ha fatto delle vette la sua casa, del mondo selvaggio il suo rifugio, che “camminando si sente un tutt’uno col mondo“, a sostenere che rimane affascinato dai grandi fallimenti e dalle ritirate più che da qualunque tipo di successo. “Solo se regioni della Terra restassero inviolate, nel futuro si potrebbero ripetere viaggi analoghi“. C’è chi ammira l’uomo che si spinge avanti, altri preferiscono quello che, abbandonando il suo ego, è capace di rendere persino il fallimento una grande scalata.

Quattordici vette oltre gli 8000 metri sono state raggiunte da Messner, ma “l’insuccesso è un’esperienza molto più forte del successo“. Il fallimento mostra con chiarezza i propri limiti e sono proprio questi a dare forza, dignità e prospettive all’uomo, specie quando egli si trova di fronte al sublime, alla grandezza della natura, “quando ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua finitezza, ma, al tempo stesso, proprio perché cosciente di questo, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una facoltà superiore alla misura dei sensi” (Immanuel Kant).

Nanga Parbat

La grandezza dell’uomo sta nel trasformare la disperazione in un messaggio positivo, esercitando il fallimento a piccole dosi e cogliendo in esso lo stimolo a tentare di nuovo. “Con il fallimento il traguardo resta“, scrive Messner nella sua autobiografia. E persino quella che reputa la sua più grande disfatta, la morte del fratello al Nanga Parbat, gli ha insegnato qualcosa, la cosa più importante: “sono arrivato alla conclusione che la vita è limitata e che qualunque cosa ha valore solo se la si può godere appieno, fino in fondo, in maniera intensa e con determinazione“.

Come può una montagna, così infinitamente grande, potente, incontrollabile, generare un sentimento di piacere, quando l’uomo si sente annientato dalla sua totale perdita di controllo, dall’inquietudine, dalla paura della propria insignificanza e dei suoi limiti?
Il piacere deriva dalla presa di coscienza della nostra forza spirituale, che ci mette in grado di resistere alla sfida di minacce mortali e di superare, se occorre, i timori per la fragilità dell’esistenza“. La Critica del Giudizio di Kant non fa che ribadire la teoria messa in pratica da Reinhold Messner: la natura, nella sua grandezza quasi spietata strappa l’individuo dalla “mediocrità ordinaria“, misurando l’animo con l’immensità, l’onnipotenza, l’infinito.

Friedrich, "Viandante Sul Mare Di Nebbia"

Proprio attraverso il coraggio di guardare in faccia il pericolo, la bellezza, il confine oltre il quale non può spingersi, l’uomo stesso diviene sublimità, perché “la grandezza dell’uomo è la consapevolezza della sua condizione di miseria” (Blaize Pascal).

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