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Quando lo sport regala l’immortalità

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Affermo che qualcuno anche in futuro si ricorderà di noi”. (Saffo, Frammento 147)

Chi dice che la morte colpisce in ogni caso? La poetessa greca Saffo affermava che l’arte aveva il potere di consacrare il suo nome all’eternità della memoria. A trionfare sulla morte non è solo la poesia, ma qualsiasi impresa degna di gloria, uno scudo contro la fugacità e l’ansia del tempo che passa. “Non omnis moriar”, sosteneva Orazio, non morirò del tutto. E di certo neanche lui, Pietro Mennea, classe 1952, velocista, campione olimpico, recordman italiano degli anni ’70 e ’80, troverà “pace” ora, se per pace s’intendono l’oblio e il silenzio per chi non corre più. Un uomo che ha trascorso una breve vita tutta d’un fiato, battendosi sempre contro il “nemico sportivo numero uno”, il doping, ciò che per Mennea distrugge la persona e danneggia l’immagine di quello che, a tutti gli effetti, è lo specchio della vita, lo sport, dove per la vittoria non basta il talento, ci vogliono il lavoro e il sacrificio quotidiano. Sosteneva che tra gli atleti deve vincere il più bravo, non il più furbo e anche se Mennea proprio non lo si direbbe uno sciocco, secondo il suo principio doveva essere assai poco furbo.

Divenuto leggenda nel 1979 per il suo 19″72 nei 200 metri (record rimasto inviolato per i successivi 17 anni da quell’Olimpiade Universitaria del Messico), la grandezza di Mennea è testimoniata da amici, giornalisti, sportivi, nonché dalle quattro lauree in Giurisprudenza, Scienze Politiche, Lettere Moderne e Scienze Motorie.
Sara Simeoni, campionessa olimpica di salto in alto in quegli stessi anni, raccontava che durante gli allenamenti con Mennea, la Freccia del Sud (così lo chiamavano) aveva una tenacia incredibile e sopportava lo sforzo senza concedersi tregue. “La fatica non è mai sprecata: soffri ma sogni”, racconta di lui Gianni Mura. Mai pienamente soddisfatto di sé, aveva una grande volontà di arrivare laddove altri non riuscivano. Correre era uno dei modi che Mennea aveva per riscattare la fatica e la povertà da cui proveniva: lo sport è bello perché non è sufficiente l’abito, chiunque può provarci, diceva.

Il ricordo eterno dei giusti, dei modelli esemplari della storia, per il Foscolo dei Sepolcri, oltre ad essere testimonianza della grandezza di una Nazione, accende a egregie cose il forte animo, perché desta nei giovani il nobile desiderio d’imitazione.
Ed è stato un tempo, un 19″72, che ha cancellato il significato stesso di tempo lasciando spazio all’immortalità, la stessa immortalità di un Fausto Coppi o di un Marco Simoncelli.
Pietro Mennea come il leggendario Achille, lo stesso piè veloce e la stessa scelta: combattere per la gloria, uno mostrando il proprio valore nella battaglia di Troia, l’altro in quella, ancor più dura, della vita. Pare proprio che le parole dell’acheo fossero state scritte per il nostro eroe di Barletta: d’immortale gloria l’acquisto mi farò (Iliade, libro IX), e saranno i decenni a testimoniarlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Chiara Mastrosani

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