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‘Italia, come stai?’: ciclismo su pista, così non va!

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I Mondiali di ciclismo su pista terminati ieri a Minsk hanno sancito una sentenza che avremmo voluto evitare: l’Italia è ancora distante anni luce dai grandi colossi che monopolizzano la disciplina, in particolare Gran Bretagna, Australia, Germania e Francia.

E dire che le apparizioni in Coppa del Mondo di questa stagione ci avevano illuso. Nell’appuntamento più importante, tuttavia, gli azzurri hanno raccolto le briciole, sostanzialmente evidenziando una competitività pressoché equivalente a quella degli scorsi anni.

Non si può negare che rispetto al passato il Bel Paese possa contare su due gruppi giovani (uomini e donne) e di talento nel settore dell’inseguimento a squadre. Una volta per tutte, tuttavia, l’Italia deve comprendere come l’interscambiabilità tra pista e strada sia imprescindibile e di vitale importanza per il futuro del movimento. Possibile che i nostri quartetti (terzetto nel caso delle donne) abbiano fatto segnare dei tempi di qualche manciata di secondi superiori a quelli nelle proprie corde e che avrebbero consentito un comodo ingresso tra le prime quattro posizioni? Da ciò si deduce come la preparazione per il grande appuntamento probabilmente non sia stata ponderata nel modo migliore. Non per colpa dei tecnici. Diversi corridori si sono infatti allenati su strada con i rispettivi team sino a qualche giorno prima dei Mondiali bielorussi, effettuando così solo ridotte sedute di lavoro specifico in pista. Ovvio che in questa disciplina nulla si può improvvisare. Vogliamo davvero degli inseguimenti in grado di puntare ad un podio alle Olimpiadi di Rio 2016? Allora prendiamo un gruppo di 8-10 ragazzi/e come quello attuale, ma facciamo in modo che stiano a stretto contatto tutto l’anno, allenandosi insieme e nel rispetto di una preparazione mirata alla pista.

Ciò non significa rinunciare alla strada, tutt’altro. Il mondo (o meglio, il Commonwealth) ci insegna che è possibile affermarsi in entrambi i campi e che anzi l’uno è propedeutico all’altro. Il caso più eclatante è naturalmente quello di Bradley Wiggins, prima dominatore su pista con due ori a Pechino 2008 e poi addirittura capace di aggiudicarsi la corsa delle corse, il Tour de France. Rimanendo all’interno degli italici confini, la stessa Giorgia Bronzini, unica nostra medaglia a Minsk (bronzo nella corsa a punti, specialità non olimpica), da anni si cimenta con eccellenti risultati su entrambi i fronti, raccogliendo successi a grappoli.  Pure Vincenzo Nibali, nostro unico esponente in grado al momento di puntare alle corse a tappe, per migliorare la posizione aerodinamica per le cronometro ha svolto dei test specifici nel velodromo di Montichiari. Nel ciclismo moderno, non esiste una strada diversa dalla polivalenza.

Tornando poi alla rassegna iridata bielorussa, se le attese per gli inseguimenti non sono state rispettate, non si può nascondere il vuoto assoluto nel reparto della velocità. Dal 2008, in seguito al ritiro di Roberto Chiappa, l’Italia è letteralmente sparita da questa disciplina. Velocità olimpica, velocità a squadre e keirin: si tratta di tre delle cinque gare previste alle Olimpiadi. In tutte queste i nostri portacolori, nella migliore delle ipotesi, recitano il ruolo delle comparse (ma spesso neppure vi prendono parte). Non stupiamoci, poi, se anche su strada, con Alessandro Petacchi ormai vicino ai 40 anni, non si intravedono più grandi velocisti. Manca la formazione, una scuola che “costruisca” campioni in questo settore. Nell’ultimo quadriennio ci siamo affidati ad un talento come Elia Viviani, costretto a cimentarsi in una disciplina a lui non completamente congeniale come l’omnium. Troppo poco per una nazione come l’Italia che per oltre mezzo secolo si è imposta come potenza dei velodromi. Poi, con l’inizio del nuovo Millennio, il rapido declino. Voluto da noi e da nessun’altro: quando torneremo seriamente ad investire nel ciclismo su pista?

federico.militello@olimpiazzurra.com

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