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I mali del rugby italiano: Accademie, troppe e con troppe incognite. E con pochi talenti

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I fallimentari (parole di Ugo Gori) Mondiali sono soltanto un pretesto per sfondare un portone già abbondantemente aperto, ma è pur vero che si tratta di uno dei rari momenti in cui anche l’attenzione dei mass media si concentra per qualche tempo sul rugby italiano. E, senza nemmeno scavare troppo a fondo, sui suoi tanti ed annosi problemi che vegetano quasi indisturbati, ai quali nessuno riesce ad ovviare o a mettervi un freno malgrado gli evidenti segni di regresso dell’intera piramide ovale azzurra, dal vertice fino alla base. Proprio da quest’ultima inizia il viaggio di OA Sport tra i meandri piuttosto malsani del movimento Italia, da quelle fondamenta da cui si sta cercando di costruire un futuro piuttosto grigio. La sola parola, del resto, divide e fa discutere: le Accademie.

Cominciamo dai numeri: in Italia esistono quaranta centri di formazione Under 16, nove Accademie zonali Under 18, due Accademie nazionali Under 19 e un’Accademia Under 20 attualmente impegnata nella Serie A (il campionato cadetto dopo l’Eccellenza). In totale fanno la bellezza di 52 strutture finanziate dalla Federazione Italiana Rugby e fortemente volute dal presidente Alfredo Gavazzi, fermo sostenitore delle Accademie e dell’assoluta centralità del massimo organo di controllo del rugby italiano nella formazione dei giovani. Il suo programma elettorale si è basato in particolare proprio su questo punto, visto che nel 2013 ha riformato il sistema giungendo proprio a questa conformazione decisamente indigesta per molti nella penisola. La sensazione generale, del resto, è che di tutte queste Accademie non se ne senta il bisogno. Azzardare i paragoni con altre realtà come, ad esempio, quella inglese dove i centri a gestione federale sono appena quattordici è altrettanto deleterio viste le evidenti differenze nella tradizione e nel budget a disposizione. Il sistema dei club, in Inghilterra, è oltretutto ben più radicato rispetto all’Italia, dove tante società vivono di stenti e devono pensare innanzitutto a sopravvivere. Del resto, nemmeno il totale affidamento alle singole squadre riuscirebbe a produrre una filiera di giocatori di alto livello proprio per motivi strutturali ed economici. Accademie e club, tuttavia, possono tranquillamente coesistere, senza che le prime pestino i piedi ai secondi e viceversa.

Attualmente, invece, la situazione appare piuttosto contorta, soprattutto a livello Under 18 vista la distribuzione delle vituperate Accademie sul territorio: due al Sud (Benevento Catania), due in Lombardia (Milano Remedello), due in Veneto (Mogliano e Rovigo), una in Toscana (Prato), una in Piemonte (Torino) e una nel Lazio (Roma). Lo squilibrio tra Nord e Sud (nel rugby come in tante, troppe, altre cose) è palese, ma in particolare sorprendono due centri nella regione più ovale di tutte, quella veneta, dove l’attività di club è eccezionalmente solida ed estremamente prolifica. Sorvolando sulla banalità nel piazzare dei centri a Roma, Milano e Torino, quando potrebbero servire in altri luoghi della stessa regione, anche la scelta di Remedello non appare delle più logiche. La cittadina è situata infatti in provincia di Brescia, la stessa di una certa città chiamata Calvisano, quantomai rugbistica visti i due scudetti vinti consecutivamente. Considerando poi la vicinanza con Viadana, altro paese molto ovale, la scelta diventa ancor più incomprensibile. Legare un’Accademia federale ad un territorio non è certamente una manovra da censurare, ma sarebbe il caso di iniziare a farlo con costrutto, puntando su quelle zone in cui il rugby fa storicamente fatica a piantare le proprie radici e dove l’attività di club è praticamente inesistente. In Veneto, in Lombardia e nelle grandi città, di fatto, la Federazione potrebbe pensare ‘soltanto’ ad aiutare economicamente le società, indirizzando e dettando le strategie da seguire e seguendo da lontano lo stato dell’arte, senza lasciare il marchio con un’Accademia. O meglio: lasciarlo soltanto dove un accentramento federale si renderebbe necessario.

Le Accademie, d’altronde, possono essere di grande aiuto in un Paese dalla scarsa tradizione come l’Italia, ma con questi numeri gonfiati a dismisura dalla politica di Gavazzi un effetto boomerang è facilmente rintracciabile nel bilancio federale (il costo di Centri di Formazione e Accademie si aggira intorno ai 4 milioni annui) e soprattutto nella qualità dei prodotti finiti, ovvero nei giocatori potenzialmente da inserire nell’Alto Livello al termine del percorso svolto. Una qualità al momento tutt’altro che eccelsa, vuoi perché la grande espansione del progetto è avvenuta soltanto da due anni, vuoi soprattutto perché nelle scuole servono generalmente dei maestri preparati. E i Centri e le Accademie appaiono davvero troppi per poter credere che siano seguiti da un numero adeguato di allenatori di livello e tecnici preparati. Improbabile, per usare un eufemismo. Anche questo, oltretutto, è un grave problema del sistema italiano: non aver mai pensato concretamente ed in maniera seria alla formazione degli allenatori , forse non il primo problema che emerge quando si parla di Accademie ma con tutta probabilità il più importante. Con la mancanza di tecnici qualificati, infatti, si spiegano la penuria di coach italiani adatti alla guida delle due franchigie celtiche (gli stessi Guidi e Casellato devono dimostrare di esserlo) e in particolare i pochi talenti sfornati finora dalle Accademie. I pochi ad aver avuto lo slancio per emergere, come Favaro, Campagnaro, Venditti e Sarto per citarne alcuni (ma non gli unici), sono soltanto le eccezioni che confermano la regola, se pensiamo oltretutto alle skills ancora non del tutto sviluppate da parte dei trequarti citati che avvalorano la tesi del funzionamento piuttosto maldestro delle Accademie e prima ancora dei Centri di Formazione. E tra le Under 18 e i secondi si aggirano all’incirca milleduecento ragazzi. La formazione dei formatori, insomma, è un altro meccanismo tutt’altro che chiaro, per non dire deficitario. La soluzione? Semplice a dirsi, ma da elaborare con cura: assumere tecnici stranieri altamente qualificati da affiancare alle guide locali delle Accademie o per insegnare rugby agli allenatori italiani, in modo da lasciare un`impronta su cui costruire il futuro. Andare avanti con le sole forze del movimento italiano, d`altronde, non appare possibile, malgrado qualcuno sembri pensare il contrario.

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