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L’addio di Davide Cimolai: “Sagan aveva qualcosa di diverso. Con Finn l’Italia può credere nel futuro”
Sedici anni nel ciclismo professionistico non sono semplicemente un arco di tempo: sono una seconda vita. Una vita fatta di sacrifici, cadute, voli interminabili, allenamenti, ma anche di emozioni incandescenti, amicizie rare e vittorie che rimangono incise per sempre. Per Davide Cimolai, classe 1989, il 2025 è stato l’ultimo capitolo della sua attività da corridore. Una carriera ricca, vissuta con orgoglio e senso di appartenenza indossando le maglie di Liquigas, Lampre, FDJ, Israel, Cofidis e infine Movistar, e impreziosita da 9 vittorie personali, tanti podi sfiorati e un ruolo fondamentale nelle squadre e nella Nazionale di Davide Cassani, con cui ha contribuito alla conquista di quattro titoli europei consecutivi. Cimolai è sempre stato un corridore generoso, un uomo-squadra, uno di quelli che i compagni cercano quando c’è da fare la differenza nei momenti duri. E oggi, guardandosi alle spalle, racconta una storia che va oltre i risultati: una storia di crescita, disciplina, umanità.
Cosa ti resta di questi 16 anni da professionista?
“Il ciclismo per me è stato una scuola di vita. Non è solo lo sport che ho praticato: è ciò che mi ha formato come uomo. Mi ha insegnato la disciplina, il rispetto, l’educazione, la capacità di sacrificarmi per un obiettivo — mio o dei miei compagni.
Mi porto dentro tutte le emozioni: la tensione della partenza, la fatica che brucia, la gioia di una vittoria e anche la delusione quando le cose non vanno. È un bagaglio enorme che mi accompagnerà per sempre.”
Quando hai maturato la decisione di smettere?
“È stata una decisione che è maturata lentamente, quasi giorno dopo giorno. La stagione è iniziata male, con una forte influenza in Oman. Non ho avuto il tempo di recuperare perché subito dopo dovevo correre negli Emirati, e da lì è iniziato un continuo rincorrere la forma senza mai trovarla. Spesso facevo da tappabuchi, correndo anche gare come la Strade Bianche dopo una settimana senza bici solo per permettere alla squadra di raggiungere il numero minimo di partecipanti. Poi è arrivato il problema al braccio: un’infezione sottovalutata che mi ha fatto rischiare addirittura l’amputazione. L’intervento non era complicato, ma la degenza e gli antibiotici mi hanno messo ko. Il mio sistema immunitario era a terra: tre otiti in due mesi. A luglio stavo meglio, ma al Giro di Polonia ho preso il Covid come metà del gruppo. Nonostante tutto mi hanno fatto correre il Renewi Tour, che è forse la corsa più stressante dell’anno. Ho dato tutto me stesso solo per riuscire a finirla. È stata un’annata in cui non sono mai stato davvero me stesso. Mi sono chiesto se valesse la pena continuare, soprattutto sapendo di non essere più negli anni d’oro. Ma so di aver dato il 110%, quindi non ho rimpianti. E poi: ho sempre detto che la Movistar sarebbe stata la mia ultima squadra. Non avrei cambiato team per un ultimo anno.”
Se avessi deciso di proseguire, la Movistar sarebbe stata disponibile a rinnovarti il contratto?
“È stato un insieme di fattori. Io alla Movistar ero arrivato anche per supportare Gaviria, e la nostra stagione non è stata quella che speravamo. All’interno del team sono cambiate molte cose: hanno investito molto sul Team Devo e hanno deciso di dare spazio ai giovani. È stata una scelta comprensibile e naturale per la loro progettualità.”
Nasci come pistard di ottimo livello. Hai il rimpianto che, in quel periodo, l’Italia fosse sparita dai velodromi, salvo rinascere qualche anno dopo?
“La pista mi ha regalato le prime soddisfazioni importanti. Poi però il mio sogno era diventare professionista su strada e ho scelto quella direzione. All’epoca pensavo che dedicare troppo tempo alla pista mi avrebbe allontanato dai miei obiettivi su strada. Forse sbagliavo, forse avrei potuto togliermi qualche soddisfazione in più. Ma col senno di poi è facile parlare: ho seguito il mio istinto, e rifarei la stessa scelta.”
Il tuo debutto tra i professionisti avvenne alla Liquigas con Roberto Amadio, il nuovo ct dell’Italia: che rapporto hai con lui? Pensi sia l’uomo giusto?
“A Roberto devo molto: mi ha portato nel ‘Dream Team’, come si chiamava allora la Liquigas. Per un giovane era un sogno vero, due anni incredibili. Come ct gli auguro il meglio. Io con Cassani ho vissuto gli anni più belli della Nazionale, ma sono certo che Amadio saprà dare un’impronta importante.”
Chi è il compagno di squadra più forte con cui hai corso?
“Peter Sagan, senza dubbi. Io l’ho conosciuto all’inizio, non era ancora il Peter degli anni d’oro, ma il talento era evidente fin dal primo giorno. Aveva qualcosa che gli altri non avevano.”
E chi invece il corridore con cui hai instaurato una reale amicizia nel ciclismo?
“Sono abbastanza selettivo nelle amicizie perché per me hanno un valore profondo. Vado d’accordo con tanti, ma veri amici pochi. Su tutti Jacopo Guarnieri, con cui ho condiviso tanti anni e tante esperienze. E poi Matteo Bono ai tempi della Lampre: con lui c’era un rapporto speciale.”
In questi 16 anni quali sono stati i cambiamenti più radicali nel ciclismo?
“Il ciclismo post-Covid è un altro sport. Una stagione di oggi vale come due di quelle passate, non solo fisicamente ma soprattutto mentalmente. Gli allenamenti sono cambiati: si lavora di più, si lavora più duro. A volte facevo più fatica in allenamento che in gara. Lo stress è aumentato, così come l’attenzione maniacale sull’alimentazione. Serve una mentalità fortissima, e questo può aiutare i giovani all’inizio, ma vedremo quanti riusciranno a mantenere questi standard per tanti anni.”
Quale vittoria porti più nel cuore?
“Laigueglia 2015 è stata la prima, quindi rimarrà sempre speciale. Ma se devo sceglierne una, dico la Parigi-Nizza. Mi sono riconfermato dopo qualche settimana, contro un parterre di altissimo livello. È una delle giornate che ricordo con più orgoglio.”
Sei arrivato due volte secondo di tappa al Giro d’Italia: sono un rimpianto?
“I secondi posti al Giro o quello alla Tirreno, come quando vinse Alaphilippe nel 2019, ovviamente lasciano un po’ di rammarico. Con quei piazzamenti il mio palmarès sarebbe diverso. Ma i “se” e i “ma” non cambiano la storia. Ho dato tutto e sono felice di ciò che ho costruito.”
Con Finn, Pellizzari, ma anche Ganna, Milan e Ciccone, quale futuro vedi per il ciclismo italiano?
“Con un ragazzo come Finn il movimento ha un motivo in più per credere nel futuro. Ha un motore incredibile e quello che ha fatto finora lo dimostra: ha tutto per diventare un grande. Pellizzari è un altro talento vero. E poi Ganna, Milan, Ciccone: l’Italia ha una generazione importante e io non posso che augurare loro il meglio. La materia su cui lavorare c’è eccome.”
