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Paolo Lorenzi: “Sinner e Berrettini erano fenomeni già da piccoli, la mia generazione li ha ispirati”

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Il 2021 è stato un anno d’oro per il tennis italiano. Finale Slam a Wimbledon, due finali in Masters1000, due giocatori in top 10 alla fine della stagione sono risultati che fino a qualche anno fa sarebbero stati inimmaginabili. La stagione da poco conclusa ci ha portato però via un esempio di resilienza italiana di questo sport: agli US Open Paolo Lorenzi, a 40 anni da compiere, ha deciso di dire basta. Un giocatore che con il duro lavoro è riuscito a migliorarsi, toccando le vette del suo gioco in un’età considerata solitamente l’inverno di una carriera sportiva. Con lui abbiamo parlato del passato… e del suo futuro.

In primis: come stai in questa prima off-season senza tennis?

“Sensazione diversa. Innanzitutto perché non dovevo prepararmi per andare agli Australian Open. Molto diverso dal solito, ma mi ero preparato per questo momento. Il mio fisico non ce la faceva più. Sono dei passaggi normali nella vita di una persona, anzi sono stato fortunato a giocare a tennis per tanti anni, che il mio lavoro era la mia passione”.

Hai scelto l’US Open per il ritiro.

“Una scelta obbligata. Innanzitutto vivo qui da tempo, e sono legato al Paese. E sono legato al torneo: qui ho vinto la mia prima partita in uno Slam, ho raggiunto gli ottavi di finale e per due volte sono arrivato al terzo turno. Sempre stato il torneo in cui ho fatto meglio e dove tante persone a me vicine sono venute a vedermi. Per me è sempre stato un appuntamento importante dell’anno”.

Possiamo definirti un ‘late bloomer’, un giocatore che ha raggiunto il suo picco massimo avanti con l’età. Ma come erano quegli anni avari di risultati?

“Guardando indietro credo di essere stato piuttosto incosciente. Quando le cose non andavano, credevo di poter diventare un giocatore di livello, in top 100 o addirittura in top 50. Riguardando quel periodo, quelle certezze non c’erano. Ma questa incoscienza è stata la mia fortuna, non ho mai dubitato delle mie capacità e di non farcela. Questi intoppi li vedevo come passaggi che mi avrebbero portato a diventare un tennista professionista. Credo di essere stato bravo in questo”.

Quale pensi che sia il match che ti ha fatto fare quello scatto in avanti verso il tuo obiettivo?

“Il match con Nadal al Foro Italico nel 2011 (in cui vinse il primo set al tie-break, ndr). Ero fuori dai primi 100 al mondo, passai per le qualificazioni e riuscii a giocare alla pari con il numero 1 al mondo sulla terra rossa. Quella partita mi fece capire che potevo giocare alla pari con tutti, credo che sia stato un passaggio importante per la mia fiducia. Poi i risultati ci hanno messo un po’ ad arrivare, ma quel giorno ho capito che potevo toccare quel livello”.

Tu sei stato anche numero 1 italiano. Cosa ricordi di quel periodo e soprattutto, ti aspettavi che nel breve avremmo avuto due giocatori in top 10?

“Credo che ci aspettassimo un risultato del genere. Nelle ultime interviste avevo detto che in qualche anno avremmo avuto tanti grandi giocatori;  dal davanti vedevamo che i ragazzi che stavano uscendo erano molto forti. Mi allenavo con loro, come con Jannik Sinner, e sono stato assieme a Berrettini in qualche torneo. Sapevamo che avrebbero toccato questi livelli. Ma credo che la mia generazione sia stata un esempio da seguire per loro, dimostrando che lavorando bene si potevano raggiungere un determinato tipo di risultati. Poi loro ci hanno messo il talento ed è stata la chiave in più per farli arrivare dove sono adesso: se hai due giocatori in top 10, vuol dire che sono dei fenomeni. Meriti a chi c’era prima, ma hanno anche loro tantissimi meriti”.

Tornando a te: il primo titolo ATP a Kitzbuhel a 35 anni. Come ti sentivi in quella settimana, c’era qualcosa di diverso in te, eri sicuro di vincere?

“Quello è ovviamente il ricordo più bello. Io dico sempre che i tennisti perdono sempre almeno una volta a settimana, a meno che non vincano il torneo. È stato un sogno che si è avverato. La settimana prima io e Fognini avevamo perso in Davis con l’Argentina al quinto con Del Potro e Pella, mi presentai a Kitzbuhel con un mio grande amico maestro di tennis. Non avevo tante aspettative, ma fin da subito iniziai a giocare molto bene, fu incredibile proprio perché fu una sorpresa”.

Quale credi che sia la tua eredità nel tennis italiano?

“Quando ho smesso di giocare ho ricevuto tantissimi messaggi da tennisti e non, in cui tutti mi hanno detto che sono stato un esempio per la mia perseveranza. Anche se non dotato di grandissimo talento, ho raggiunto risultati incredibili. In molti credo che scambino il talento con la capacità di colpire la palla, di essere bello da vedere. Credo che il talento sia anche la perseveranza, l’essere aperto al cambiamento di idee per cercare qualcosa in più per migliorarsi. Credo di essere stato bravo in questo, e di essere stato in grado di fare quasi il massimo di quanto potessi fare”.   

In una parola, avevo pensato alla tua carriera: resilienza.

“E l’apprezzo. La gente magari crede di offendermi, ma invece ci vuole forza anche nel non arrendersi, nel rialzarsi dopo una sconfitta, il migliorarsi. Questa è una parte importantissima per diventare un giocatore di un certo livello”.

Nadal, Djokovic, Federer… un raffronto fra i tre.

“Io li divido sempre. Djokovic forse era il giocatore più difficile da affrontare: per metterlo in difficoltà hai bisogno di un colpo molto forte, che io non avevo. Io lo andavo a vedere spesso perché è un altro giocatore che tenta sempre di migliorarsi giorno dopo giorno e cercare di lavorare sui propri difetti. Guardavo spesso anche Nadal, che dal punto di vista mentale e della lotta sia semplicemente il migliore al mondo, mentre su Federer lo vedi perché in campo fa cose che non riescono praticamente a nessuno, vedendolo capisci che ha qualcosa che non ha nessun altro”.

Cosa prevede il futuro per Paolo Lorenzi?  

“Ho sempre detto che mi sarebbe piaciuto rimanere nel mondo del tennis. Prima di essere un professionista, sono un grande appassionato. Ho iniziato una collaborazione con Sky per quanto riguarda alcuni tornei come Finals e Wimbledon, e sono anche diventato consulente della FIT per gli Over 18. Questi sono i miei prossimi impegni, ma è soltanto l’inizio”.

2022, può essere il cambio della guardia?

“Credo che il cambio della guardia sia già avvenuto alla fine. È stato Djokovic ad essere meraviglioso nel vincere tre Slam e a fare finale al quarto, ma Medvedev ha vinto a New York, Berrettini ha fatto finale a Wimbledon… i giocatori in finale sono cambiati. Dobbiamo aspettarci che questi tre siano al tramonto: tutti speriamo che possano continuare ma il futuro è loro e dobbiamo reputarci fortunati ad averli visti”.

E gli italiani?

“Siamo fortunati ad avere Berrettini e Sinner in top 10 che possono già vincere uno Slam: Matteo a Wimbledon era il più forte dopo Djokovic, dopo aver vinto il Queen’s. L’unico altro forte è Zverev, ma il romano ha tantissime chance. E rimanendo sul prato, anche Jannik ha possibilità di migliorare: con Fucsovics, che arrivò ai quarti, giocò un’ottima partita”.

E per il futuro?

“Prima guarderei al presente. Abbiamo giovani che giocano bene come Cobolli, Nardi, Gigante, ma ora abbiamo dei fuoriclasse. Prima di pensare alla prossima generazione, mi godrei questa qui che arriva in finale nei 1000 e negli Slam”.  

Foto: Photo LiveMedia/Alessio Tarpini