Basket
Basket, Larry Middleton: “Oggi è tutto dinamico, non ci sono più i ruoli fissi. Tanjevic mi insegnò il modo di proseguire la carriera”
Larry Middleton, per tanti appassionati degli Anni ’90 e 2000, vuol dire tanto. Realizzatore incontenibile, è stato tra i più importanti giocatori passati nel nostro Paese nell’era di passaggio tra i due millenni. E ha eletto l’Italia a sua vera e propria seconda patria, tanto da esser tornato a Rimini, con la Rinascita Basket, a curare lo sviluppo del settore giovanile. Quest’intervista è testimonianza di ricordi, nomi, uomini e pianeti della palla a spicchi, in un lasso di tempo che parte da metà degli Anni ’80 e si prolunga fino a oggi.
Per te Rimini significa passare dal campo alla panchina, ma sempre con il comune denominatore che è Massimo Bernardi, che ti aveva allenato nel periodo 1992-1994.
“E’ stato un piacere ritrovare Massimo anche sulla panchina, qui. Paolo Carasso (AD della Rinascita Basket, N.d.R.) mi ha dato questa grandissima opportunità di ritornare a lavorare con il settore giovanile. Sono aggregato alla Serie B per aiutare con l’esperienza, dare una mano ai ragazzi quando ne hanno bisogno, quando vedo qualcosa che si può veramente migliorare. Ho un input diretto con la squadra“.
Ricordando il periodo 1992-1994, viene in mente una cosa particolare: nonostante la discesa in A2 sei rimasto. Una cosa di cui oggi ci si stupisce, ma che succedeva allora in più di un’occasione.
“Dipende anche dalla fortuna. Ci sono stati degli episodi, tipo quello in cui mi sono infortunato. In seguito, quando sono andato via, non so esattamente cos’è successo. Credo però che questa piazza meriti veramente la Serie A perché il basket lo vive“.
A proposito di città che vivono il basket, per te prima ancora era Trieste. L’amore grande.
“La mia prima città italiana. E’ stata la chiave della mia crescita: ho trovato subito Boscia Tanjevic che mi ha insegnato la maniera di proseguire la carriera. Arrivavo dall’America, avevo giocato un anno in Grecia all’Olympiacos, e venendo qui mi sono messo a giocare sul serio. La società aveva piani di crescita importanti, sono riuscito a calarmi nel ruolo giusto. Lui ha avuto modo di modellarmi in modo da farmi fare una carriera abbastanza lunga“.
Tanjevic che in quello stesso periodo fece stare fuori un anno Dejan Bodiroga per farlo diventare quello che poi è diventato.
“Era il periodo di grande crescita anche di Gregor Fucka. Eravamo pieni di giovani che crescevano, e Tanjevic è stato il perno. Gestiva con gli allenamenti, con il modo di lavorare, e siamo stati anche bravi noi a seguire e ascoltare, e a impegnarci al massimo per crescere“.
Anche se poi è stato per poco tempo, dopo che se n’è andato Stefanel sei tornato tu.
“Sì, sono tornato e mi sono trovato Illy. Sono stato benissimo. Mi rimane sempre nel cuore Trieste, anche in quel breve ritorno. Non avevo trovato l’ambiente che ho lasciato, ma mi sono sempre trovato bene con la squadra, con la città. Le società fanno le loro scelte, loro volevano andare in un’altra direzione e mi hanno lasciato andare. Ho poi proseguito la stagione con Modena“.
Quando sei arrivato all’Olympiacos, il basket greco era nella sua esplosione: c’era Nick Galis e c’era l’Europeo del 1987 con cui è nato tutto quel che è successo lì.
“Sono arrivato alla fine della grande crescita, ho sentito tutte le storie di Galis, di tutti quanti quelli che erano forti e che avevano vinto gli Europei. Era in crescita, il campionato greco, c’erano 5-6 squadre molto forti e il resto era medio livello“.
E sei andato a Limoges, che aveva vinto la finale della Coppa dei Campioni (odierna Eurolega) due anni prima, nel 1993 contro Treviso.
“Quello è stato storico, perché c’era Maljkovic la cui chiave per vincere le partite era la difesa. Aveva vinto due anni di seguito in Europa (si riferisce al dominio Jugoplastika nelle stagioni 1988-1989 e 1989-1990, N.d.R.)”.
Infatti di lui si dice che abbia distrutto il basket europeo, per un periodo.
“Perché non si capiva. Ma quando sono andato lì ho capito benissimo, perché tanti di quegli stessi giocatori erano rimasti e ho visto quanto erano efficaci e bravi in difesa. La loro mentalità era difensiva, non erano molto fluidi in attacco. Però in difesa ti facevano guadagnare ogni millimetro di campo“.
Se dico un solo nome: Horace Grant.
“Il mio ex compagno di casa a Clemson. Vivevamo insieme. Un grandissimo, grande persona, come giocatore tutto il mondo sa chi è perché è stato anche lui pezzo chiave dei campionati vinti dai Chicago Bulls. Il nostro rapporto è sempre stato molto bello. Ogni tanto quando ci sentiamo ci ricordiamo dei vecchi tempi. Bello“.
Tant’è che Phil Jackson se l’è portato dietro nel primo anello del three-peat dei Lakers.
“Sì, perché Horace era una garanzia in difesa e a rimbalzo. Ed era molto sottovalutato in attacco: aveva un tiro dalla media che non era male, aveva percentuali abbastanza alte, ma non è che ai Bulls poteva svelare quel tipo di gioco. Lì serve una cosa specifica: i palloni da giocare erano tra Jordan e Pippen, e lui si è calato nel ruolo ritagliato per lui. Ne hanno guadagnato tutti“.
La sua è diventata una famiglia di cestisti, che abbiamo spesso visti in giro per l’Italia o in Eurolega.
“I suoi geni hanno prodotto un bel po’, perché anche suo gemello Harvey è stato forte e tutti e due hanno figli che hanno giocato in NBA, e ora anche in Europa“.
Per tornare a te, sei stato a Siena prima di Siena.
“Una bella esperienza a metà della mia carriera. Ero cosciente del mio talento, di quello che potevo dare. La società era molto forte, ambiziosa, si costruiva per avere i successi che hanno poi avuto dopo che sono andato via, ma era stata pianificata per avere, appunto, successo negli anni a venire. Hanno costruito una cosa molto solida e ne hanno guadagnato“.
Come mai hai amato così tanto il Sud? Sei andato a giocarci anche nelle serie minori.
“Il basket è il mio primo amore. Quando ho smesso, ogni tanto andavo in palestra, poi mi veniva voglia di fare qualche partita e ho avuto l’idea brillante di scendere ogni tanto in campo e farmi una sudata. L’amore per il basket non mi lascia mai, ce l’ho dentro, non c’è niente da fare“.
E dev’esser stato tanto, questo amore, ad Avellino, se è vero che dopo la Scandone hai continuato nelle società minori.
“Dopo Avellino sono andato soltanto a Castelletto Ticino, ho finito lì e mi è anche dispiaciuto nell’ultimo anno, perché mi sono infortunato e non ho dato tutto quello che potevo dare. Però sono soddisfatto di aver finito così“.
Ad Avellino, poi, hai fatto la storia perché finché non è arrivato Marques Green avevi il record di punti.
“Però non mi dispiace. Io sono arrivato a fine carriera, se fosse successo tre anni prima non credo che mi avrebbe superato!” (Ride)
Le società poi hanno avuto le loro storie: Trieste è fallita nel 2004 e poi si è ripresa con la nuova entità, Rimini sta ricostruendo, Siena è saltata due volte (Minucci prima, Macchi poi), Pesaro ha avuto la vicenda Amadio e Avellino quella del 2019.
“Hanno sofferto per i problemi che hanno creato negli anni. Prima o poi devi pagare dazio per tutti gli errori. Però Avellino ama davvero il basket, ci tengono alla squadra, ce l’hanno nel cuore, nel sangue, e mi dispiace che non hanno più la Serie A dove andare a godersela. Però chissà, pian piano si può ricostruire con una società solida, con persone valide che riescono a controllare la situazione e fare decisioni buone, corrette, che riescono a mandare avanti la società“.
8 aprile 1993: 50 punti.
“Qui. Contro Roma“.
Il Messaggero, anzi, in realtà poco dopo che il Messaggero aveva tirato le cuoia.
“Era una squadra di supercampioni, in teoria neanche dovevamo stare vicini a combattere. Ma abbiamo trovato il modo di arrivare alla fine per vincere quella partita. In fondo è determinazione quella che uno ha, anche come squadra, anzi soprattutto, perché servono tutti e 10, o 12, per vincere una partita del genere“.
Al tempo l’Italia “rubava” i giocatori alla NBA. C’erano Brian Shaw e Danny Ferry a Roma, Bob McAdoo per anni a Milano, Toni Kukoc diventato grande a Treviso, c’era Darryl Dawkins.
“A Torino e poi a Forlì. Anche lui amava l’Italia. Ci sono stati dei grandi giocatori. Michael Ray “Sugar” Richardson. Sono stati giocatori di livello assoluto. Michael Cooper anche, a Roma“.
Con Dino Radja.
“C’era anche Reggie Theus a Varese. Qui sono passati grandissimi giocatori“.
Fino anche a Dominique Wilkins, solo che a Bologna ci sono i ricordi diversi di quello che è successo.
“E non parliamo neanche della Virtus di quegli anni lì. Sasha Danilovic, Hugo Sconochini, Manu Ginobili, il supercampione di San Antonio“.
E a proposito di San Antonio, anche George Gervin venne in Italia, a Roma. Stagione 1987-1988, Roma-Milano, Gervin-McAdoo, il PalaEur pieno un’ora prima con Maradona all’Olimpico.
“Quello era il bel basket di gente veramente capace. Si vedevano altissimi livelli“.
Adesso invece è cambiato tanto, sono cambiati i rapporti di forza e sono diverse le situazioni.
“Il basket è progredito, i tempi sono cambiati, è molto più dinamico il basket di oggi. Non si è mai fermi. Oggi come oggi il gioco è diventato con meno posizioni fisse. Devi essere molto più dinamico come atleta, non ci sono più i 5, 4, 3 di ruolo definito. Sono diventati tutti intercambiabili, se una squadra vuole avere successo dev’essere così. Non ci sono più i centri fisici in mezzo all’area“.
Negli Anni ’80 di questo genere esisteva Tkachenko, in Europa: non passava nessuno quando stava lì in mezzo. Oggi, per esempio, c’è un Kyle Hines che sarebbe relativamente piccolo, ma se sale su a stopparti è la fine.
“Adesso è tutto dinamico, ti fanno uscire fuori per il blocco, rollano a canestro, si spaziano anche loro. Cercano di non occupare l’area dei tre secondi, e allora devono cambiare pure loro nel tempo“.
In tema di lunghi, negli ultimi tempi della tua carriera ce n’era uno giovane, che era Erazem Lorbek, che ai tempi era già un prototipo di quel 4-5 che era il classico rebus per le difese.
“Per questo dico basket progredito. Non ci sono più fissi-fessi. Li chiamo fissi-fessi perché se sei fisso sei fesso, perché non stai aiutando niente e nessuno da fisso e fesso. Se uno non è mobile, fa fatica oggi a giocare“.
C’è l’1 che deve fare il 2, il 2 che deve fare il 3. Anni fa un tuo ormai collega, Fabio Corbani, raccontò che nella costruzione di una sua squadra teneva conto del fatto che non c’erano più i giocatori che avevano i ruoli fissi, ma dovevano essere intercambiabili all’occorrenza.
“Ed è sempre un vantaggio per una squadra avere giocatori così. Ogni tanto si può trovare anche qualcuno in grado di coprire tre ruoli“.
E ce n’era uno, invece, che poteva veramente ricoprirne cinque di ruoli: Gregor Fucka.
“Quattro sì. Come play no, ma era veramente già uno fuori dal comune quando giocava. Uno che tirava con tutte e due le mani, con quell’agilità, quell’altezza, quella tecnica, quei fondamentali, era già avanti negli anni“.
Alle Olimpiadi Kevin Garnett visse gli incubi quando lo vide davanti.
“Però è uno che andava sull’intensità, e Gregor li ha sempre sofferti tipi così. Però se gli mettevi davanti uno col suo stesso temperamento li faceva in due“.
Al tempo l’Italia aveva Myers che segnava da dove gli pareva, Meneghin che poteva essere il più forte nel suo ruolo in Europa se non si fosse infortunato. Ce n’erano tanti.
“Gli infortuni hanno fatto la loro parte dappertutto. Non c’è niente da fare. Devi avere fortuna nella vita, ma devi anche prepararti il corpo per determinate situazioni. Oggi come oggi c’è una gran preparazione atletica. La vedo difficile, se la segui bene, che ti infortuni, ma a volte la sfortuna colpisce“.
E può succedere molto in questo periodo, in cui il Covid ha creato problemi di preparazione e di intensità fisica che hanno cambiato inevitabilmente il corso delle cose.
“Il Covid ha cambiato qualsiasi aspetto della vita. Per uscire di casa devi tenere sempre una mascherina, devi stare attento a con chi parli e non devi neanche andare nelle zone troppo affollate. Appena ti alzi ci devi fare un pensierino“.
Il basket 30 anni fa e il basket di adesso, come hai detto, sono totalmente diverso. Però c’è qualcosa che prendi con piacere di quella pallacanestro?
“Magari la durezza. Non c’erano i “tuffi”. La gente era molto più solida. Gli atleti certo che sono più mobili, più tutto, ma era molto più rognoso il basket trent’anni fa“.
C’era una variabile importante, ai tempi, che era la Jugoslavia. Oggi sono tutte nazioni diverse, ma al tempo in uno squadrone del genere avevi contemporaneamente Drazen Petrovic, Vlade Divac, Zarko Paspalj, Toni Kukoc, Dino Radja. C’erano tutti. Dicono in molti che quella squadra avrebbe potuto rivaleggiare con Michael Jordan, Magic Johnson, Larry Bird.
“A loro mancava l’atletismo. Se parliamo di classe, di fondamentali, di conoscenza del basket, loro potevano competere con chiunque al mondo. Quando si aggiunge atletismo, tempismo e quello che vuoi, questo è dove venivano surclassati. Velocità, fisico. Però sulla conoscenza del basket non solo non avevano niente da invidiare a nessuno, anzi. Avevano un metodo di lavoro duro. Si allenavano due volte al giorno, tre, quattro ore la mattina, tre ore di sera. Per arrivarci hanno dedicato la loro vita a quella causa. Per questo vedi ogni tanto quando questi giocatori slavi si ritirano, non prendono più in mano una palla perché loro ci hanno speso la vita dietro. Quando mettono giù la palla e si godono la vita ho visto pochi che hanno continuato a stare in campo“.
Allora c’era tutto il blocco sovietico, c’era la Jugoslavia e c’era l’Italia, che aveva una scuola di ordine assoluto.
“E’ stata molto buona, quando c’era Sandro Gamba, ma anche prima di lui. Ci sono delle storie che sai meglio di me, però ogni nazione aveva il suo punto di forza. Ci sono atleti che sono andati oltreoceano per tentare la fortuna, Vincenzo Esposito, Dodo Rusconi, poi Andrea Bargnani. E Marko Jaric, che giocava da play atipico alla Fortitudo, uno di due metri che giocava play con un atletismo del genere. Sono passati molti, Jugoslavia, Russia, Grecia, che sta anche producendo qualcuno di interessante. In Francia ce n’è una marea“.
Per non parlare di Spagna e ancor più Lituania, dove il basket è sport nazionale.
“Il basket in Europa è in buone mani. E’ forte. Non ci vuole niente per il basket FIBA per competere con gli Stati Uniti. Ci può anche stare come discorso“.
Oggi parliamo tanto di un campione come Luka Doncic, ma c’è stato un giocatore che se non si fosse infortunato avrebbe potuto essere ancor più forte di quello che è stato. Arvydas Sabonis.
“Il primo mago della situazione. Passava la palla come nessun altro che ho visto, aveva un’intelligenza cestistica sopra il normale, con un’enorme agilità per quella taglia lì. Lui sì, poteva giocare in tutte e cinque le posizioni. Era veramente atipico. Penso sempre che uno come lui avrebbe potuto giocare benissimo anche nel basket di oggi. Era un passatore di primo grado, segnava, sapeva far segnare, creava. Ed il bello è che giocava sui due lati. Oggi vogliono fare i realizzatori senza difendere. I fuoriclasse sono quelli che giocano sui due lati nel campo”.
Quali sono state alcune delle persone che, per te, hanno avuto i ruoli più importanti in tutti questi anni?
“Questa è molto difficile. Ho avuto tante persone che mi hanno aiutato in questo cammino. Il primo naturalmente è Tanjevic. Lo dirò sempre finché morirò: se non ci fosse stato lui non avrei fatto la carriera che ho fatto, non sarei arrivato così sano di fisico. Il suo metodo di lavoro mi ha permesso di vivere una vita piena anche fisicamente. Un altro è Stefano Pillastrini, è stato molto importante negli anni a Modena e sono andato a Pesaro perché c’era lui“.
Com’è cambiato lo sviluppo dei giovani tra i tuoi tempi e quelli attuali, vedendoli dall’altra parte come allenatore, e considerando che è cambiato il mondo?
“E’ cambiato il modo di lavorare. Ora ci sono più preparatori che riescono a prepararli fisicamente, poi si danno in mano agli allenatori che riescono a formarli. I ragazzi di oggi sono molto più delicati. Trent’anni fa facevamo un altro tipo di roba. Oggi ci si prepara per non farsi male nel tempo. Trent’anni fa si andava lì e si faceva lavoro di forza, si facevano le scale e saltavano gli ostacoli, o cose del genere. Oggi non se ne parla. Oggi ci sono degli specialisti per preparare i ragazzi, che riescono a prepararli muscolarmente per essere pronti all’impatto. Oggi i ragazzi sono preparati molto di più“.
Credit: Ciamillo
