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Viviana Ballabio, basket femminile: “Riccardo Sales ci diede fiducia nel ’95 per l’argento europeo. Como, quante emozioni tra scudetti e Coppe”

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Si scrive Viviana Ballabio, si legge una stella di primissima grandezza della pallacanestro femminile italiana. Medaglia d’argento agli Europei del 1995, ha fatto parte della spedizione azzurra alle Olimpiadi 1996, che regalò i quarti di finale. Al suo nome, però, si lega una delle più grandi, e belle, storie del basket italiano: parliamo di un’autentica bandiera, oltre che di una campionessa, perché ha trascorso vent’anni abbondanti tutti nella stessa squadra, la Pool Comense, che non ha mai lasciato nemmeno in altri ruoli fino al momento della scomparsa della società nel 2012. L’abbiamo raggiunta, nel suo mondo che non ha punti di contatto con la palla a spicchi, per un’intervista telefonica in cui ci ha raccontato il passato, la vita e tanti dettagli dell’epopea di una delle squadre più vincenti, in Italia e in Europa, della nostra pallacanestro.

Com’è la Sua vita adesso?

“Io adesso lavoro mezza giornata in amministrazione in un’azienda che produce mobili e poi faccio la mamma. Ho un ragazzo di 15 anni, autistico, quindi ha bisogno di un po’ più attenzioni rispetto a un quindicenne normale. Faccio la mamma a tempo non pieno, perché la mattina lavoro, però il pomeriggio sono con lui”.

Anche se gli autistici hanno bisogno delle loro attenzioni, non solo sono delle persone, ma anche delle persone che possono avere una mente piuttosto spiccata.

“A parte che non è sempre così, c’è sempre quell’immagine un po’ stereotipata dell’autistico genio. Il problema è che il mondo in cui viviamo, mi ci metto pure io stessa, non è così preparato ad accoglierli. Bisogna cercare di insegnare loro un po’ di abilità per poter stare in mezzo a questo mondo. Sicuramente hanno tante abilità, però la gente in genere è più portata a vedere le disabilità rispetto alle abilità. E’ la mia considerazione per quello che ho vissuto fino ad ora”.

Infatti si sente spesso del numero di difficoltà dei genitori di figli autistici.

“Lo spettro autistico si chiama spettro perché racchiude una vasta gamma di tipologie autistiche. Ci sono persone ad alto funzionamento, altre che hanno altre situazioni per cui hanno difficoltà a parlare. Da me fortunatamente non è una situazione delle più drammatiche, però ci sono certamente tante difficoltà nel relazionarsi con gli altri. Mio figlio cattura tantissimo il mio tempo perché ha bisogno di imparare alcune abilità per poter essere più autonomo possibile, perché viviamo in un mondo dov’è richiesto di essere in un determinato modo, o perlomeno per relazionarsi con gli altri bisogna esserlo, e in questo fa fatica, ha bisogno ancora di un supporto”.

Passando al discorso del campo, Lei è stata un’autentica bandiera: vent’anni alla Comense da giocatrice, più ancora altri negli altri ruoli.

“Sono un caso patologico! (ride) Io mi ritengo fortunata. Ho avuto una combinazione di una serie di fattori che mi hanno permesso di avere una carriera lunga, nello stesso posto e per di più quello in cui sono nata e cresciuta. Per cui mi ritengo fortunata, anche perché ho vissuto gli anni più belli della pallacanestro femminile, giocando in una squadra che lottava ai massimi livelli. Queste combinazioni mi hanno permesso di avere la carriera che ho avuto”.

Parliamo di quegli Anni ’70-’80-’90 che sono stati l’apice del basket femminile italiano, con Coppe dei Campioni, Coppe Ronchetti, podi agli Europei, le partecipazioni alle Olimpiadi.

“Infatti. Per questo dico. Anche adesso ci sono giocatrici forti e squadre ben organizzate, però a livello di risultati, e di visibilità della Nazionale, anche a livello economico, rispetto ai tempi in cui ho giocato io, giravano più soldi rispetto ad adesso. Una serie di combinazioni che ha fatto sì che vivessi uno dei migliori momenti della pallacanestro femminile, sicuramente. A 15 anni sono andata subito in Comense, che nei primi anni lottava per la salvezza, ai tempi lo squadrone era Vicenza. Dopo, invece, è arrivato Pennestrì, ha fatto il salto di qualità a livello di organico, sono cambiati gli obiettivi, si è lottato per lo scudetto, per la Coppa dei Campioni, andando per nove anni in Final Four. Non è poca roba. Di questo, secondo me, si è risentito a livello di Nazionale, dove, avendo giocatrici che giocavano ai massimi livelli europei, ciò ha consentito di poter competere e arrivare a buoni risultati. Giocare gli Europei, vincere l’argento, andare alle Olimpiadi”.

Si parlava di Pennestrì, ma anche il ruolo di Augusto Protti non va dimenticato.

“Io sono arrivata quando lui è andato via. Quando sono arrivata io c’era Levrini. Protti c’era, credo, al primo anno, ma avevo 15 anni e non mi ricordo. Non conoscevo le altre sfere. Poi dopo è arrivato Levrini, per 2-3 anni, e nel 1989 è arrivato Pennestrì. Però con Levrini giocavamo per la salvezza”.

Poi è cambiato tutto quando sono arrivate le Fullin, Todeschini, Salvestrini, a cavallo tra gli ’80 e i ’90.

“’89-’90, ’90-’91, quando è arrivato il primo scudetto. Sono cambiati gli obiettivi, sono arrivate le straniere forti, le migliori che c’erano in circolazione. Ai tempi venivano nel campionato italiano prendendolo come il migliore in cui andare a giocare perché non c’era ancora la WNBA, e quindi venivano a giocare americane fortissime, a differenza degli anni successivi in cui, avendo il massimo campionato in America, tante non venivano più”.

Anche se poi ancora arrivano, però la destinazione principale non è più l’Italia, perché nel frattempo sono arrivate Russia, Turchia e altre.

“Ai tempi l’Italia era ambita per venire a giocare. Ricordo che avevamo fortissime giocatrici, poi ne ho viste talmente tante che hanno giocato anche con me”.

L’Italia era un mercato molto ricercato, ma bisogna tener conto anche di una prospettiva storica: in Unione Sovietica, se non eri sovietico, non è che ti facessero entrare.

“Chiaro. Il periodo storico è importante, tant’è vero che quando le straniere ci sono potute entrare, la Russia è diventata una delle nazioni più forti a livello europeo. Ai tempi non potevano uscire nemmeno da Cuba. C’erano un paio di cubane che volevano venire in Italia, ma non potevano uscire da Cuba se non per casi particolari, speciali. Io ho vissuto proprio in quel contesto, che ha fatto sì che venissero in Italia le più forti giocatrici dell’epoca”.

Fra l’altro, sono quelle che poi hanno consentito il back-to-back in Coppa dei Campioni nel 1994 e 1995.

“L’unico rammarico è stata la finale di Coppa Ronchetti nel ’91, che è stata proprio una partita scellerata e non siamo riuscite a vincerla in finale con Milano. E’ l’unico trofeo che, in effetti, manca nella mia bacheca”.

Anche lì, c’è un discorso storico della Comense che si tramanda. Perché anche oggi, ad anni di distanza da quel che è successo, c’è ancora questo tramandare delle persone, che continua tramite il ricordo di Liliana Ronchetti, i primi anni di Macchi e Masciadri e ancora alcune che sono venute fuori dal settore giovanile ci sono.

“Sì, qualcuna ce n’è ancora, anche se gli anni passano. Adesso c’è una società che si chiama Pool Comense e vuole un pochino riallacciarsi alla storia della Comense degli anni passati. Magari col tempo… d’altronde anche i primi scudetti vinti dalla Comense negli Anni ’50, sono passati quarant’anni prima che succedesse di nuovo. Sono scudetti storici. Della Comense in cui giocavo io non è rimasta più neanche la società. Una fine un po’ ingloriosa, però purtroppo non è rimasto nulla. Ora un dirigente di allora, Guido Corti, ha continuato l’attività giovanile chiamandomi, fondando una nuova società (Pool Comense 2015, anziché 1872 che era l’anno di quella storica) con un altro codice FIP. Sul territorio comasco è rimasto poco. C’è qualche piccola realtà di paese, ma a livello di squadre giovanili. Più avanti non si va. E’ un peccato. Io mi ritengo fortunata, perché ho vissuto in un periodo dove è stato tutto perfetto, a mio favore”.

C’era una buona esposizione, ai tempi, della Rai. Si ricordano anche alcune telecronache di Flavio Tranquillo per Tele+.

“Per la Rai Franco Lauro le ha fatte per la Nazionale. Ha vissuto con noi l’esperienza degli Europei a Brno, quando abbiamo vinto l’argento. Mi è dispiaciuto per lui, purtroppo è la vita”.

In quegli anni veniva anche tanta gente del maschile a vedere le partite del femminile. C’era un parterre de roi.

“Adesso non so com’è la situazione, però ai tempi c’era più condivisione tra maschile e femminile. Abbiamo condiviso tantissimi momenti con la Pallacanestro Cantù”.

Compreso il campo.

“Lì per cause di forza maggiore, non ne avevamo uno nostro. Poi è arrivato a fine Anni ’80”.

C’è qualche ricordo di quelli della Comense tra i più belli dei tempi?

“Ce ne sono tanti. Il primissimo è stato lo scudetto giovanile. Ero ragazzina, avevo 18 anni, nel 1986, ed ero appena arrivata in Comense. Però quelli più significativi sono stati il primo scudetto, nel ’91, la sfilata alle Olimpiadi di Atlanta (è stato uno dei ricordi più belli) e la Coppa dei Campioni a Poznan, nel ’94. Poi anche quella di Cantù, perché c’erano cinquemila persone. La pressione era diversa, giocavamo in casa, dovevamo vincere, quindi la vittoria è stata una liberazione. Quello è un ricordo vivo, non posso dire diversamente. Però se dovessi scegliere, direi il primo scudetto al Pianella, la prima Coppa dei Campioni e la sfilata di Atlanta, che è stata un’emozione incredibile. Ce l’ho ancora presente”.

Di Nazionale parlando, il focus spesso si fa su quell’argento, il punto più alto della storia recente, però ci son state quelle due Olimpiadi. Non solo il ’96, ma anche il ’92, con tutto il contesto precedente.

“Io nel ’92 non c’ero. A Barcellona non sono andata perché mi ero fatta male e mi aveva sostituito Bastiani. Poi gli Europei di Brno e le Olimpiadi di Atlanta sono sicuramente i ricordi più belli della Nazionale. Ma anche lì c’è stata una serie di combinazioni favorevoli. Era arrivato Riccardo Sales. Secondo me lui è stato molto bravo a trasmetterci fiducia, in noi stesse e in lui. Arrivava dalla maschile, non era facile per lui gestire 12 donne. Non è mai facile in genere, poi a livello così alto, in Nazionale. Si è creato un clima di serenità e di unione che ci ha permesso di vincere, perché, devo essere sincera, a livello tecnico non eravamo questa grandissima squadra. Ci mancavano elementi come Fullin. Sì, c’era Cata Pollini, ma dietro c’erano anche giocatrici più forti. Lì è stato un insieme di cose che ha cementato il gruppo e fatto sì che affrontassimo tutte le partite con spirito di squadra incredibile, e ci ha permesso di vincere. L’unico rammarico è stata l’Ucraina. Noi siamo arrivate senza perdere una partita, ma forse ci siamo rilassate un po’. Eravamo consapevoli di aver raggiunto un obiettivo, una medaglia l’avevamo vinta, e questa cosa ci ha un po’ punito, poi. E anche le Olimpiadi di Atlanta. Nonostante alla fine siamo arrivate ottave, nel girone iniziale abbiamo disputato buonissime partite. Nel ’92 non c’erano state vittorie, invece noi abbiamo esordito battendo la Cina, abbiamo vinto partite importanti, con il Giappone, con il Canada. La partita decisiva per entrare nelle prime quattro l’abbiamo persa, sempre con ‘sta maledetta Ucraina, che forse era un po’ il tarlo. Poi ci siamo andate a giocare il girone 5°-8° posto e lì forse abbiamo un po’ mollato di testa. Ma sono esperienze incredibili, che abbiamo vissuto con la forza del gruppo e con il fatto di stare bene insieme, nonostante fossero periodi molto impegnativi. I raduni per gli Europei e le Olimpiadi richiedevano un sacco di tempo via. Però questo alla fine non ci ha pesato. Stavamo bene insieme e poi s’è vinto sul campo”.

Era il periodo di un fior fiore di giocatrici. Alle Olimpiadi ci fu quella partita persa con il Brasile, che aveva Paula e Hortencia.

“Infatti abbiamo giocato delle partite contro giocatrici forti. Mi ricordo anche che c’era una cinesona, Zheng Haixia, gigantesca. Poi c’erano le brasiliane, con anche Marta. Lì ce le siamo giocate fino alla fine. Vincere con il Brasile ci avrebbe permesso di non incontrare l’Ucraina nei quarti”.

Si diceva di Cuba: anche allora arrivava nei quarti. Cuba e Brasile come scuole mancano rispetto ad allora.

“Non sono più molto aggiornata sui tempi attuali, però ai nostri poi c’erano anche, per tornare ai club, squadre forti a Est tipo il Ruzomberok”.

Già al tempo della fine della Sua carriera stava cominciando ad emergere il talento di Chicca Macchi e Raffaella Masciadri. Si vedeva già allora la sua forza?

“Si vedeva sì! Secondo me sono due giocatrici completamente diverse. Per me Macchi è molto più talentuosa, a livello di prestazione tecnica. Mascia ha una mentalità incredibile, che l’ha portata ad arrivare lontano fin dov’è arrivata. Lei si è costruita con la forza di volontà, a dimostrazione che il talento non sempre basta o è sufficiente. Poi si è costruita i suoi spazi, ha acquisito un sacco di capacità tecniche, però da subito si vedeva la differenza. Mascia aveva una forza di volontà incredibile, che l’ha portata lontano, dov’è arrivata adesso. Penso che questa sia stata la sua forza”.

E in fondo è anche la sensazione che si aveva fino a oggi con Masciadri, quella di una che ha imparato benissimo la tecnica. Chicca, invece, ancora oggi a quarant’anni occasionalmente domina le partite.

“Chicca è un po’ che non la vedo, però la sua classe l’aiuta tantissimo sicuramente, anche se fisicamente magari non riesce più a star dietro a una ventenne perché fisicamente una ventenne ha altre potenzialità. La sua classe però è talmente grande che sopperisce. Penso che non fosse indietro a nessuna”.

Quale considera l’emozione più grande della Sua vita a livello cestistico?

“Sicuramente il primo scudetto. E’ un po’ come il primo amore, non si dimentica mai. Un altro momento scolpito nella mia mente e che non dimenticherò mai è l’ultima partita giocata, dopo l’infortunio (non quella del 2011, che servì per fare il record dei quattro decenni). Era la finale scudetto con Schio, la quarta perché eravamo sul 2-1, io arrivavo da un infortunio, mi ero rotta il crociato. Non ero sicuramente pronta per giocare, però avevo fatto rieducazione da tre mesi, avevo chiesto alle mie compagne la possibilità di darmi la possibilità di mettere piede in campo se ci fosse stata la finale scudetto per poter almeno, siccome sapevo che avrei smesso, concludere sul campo l’ultima mia partita. A un minuto dalla fine eravamo avanti di 8-9 punti, sono salita sul cubo del cambio, sono entrata con l’ovazione di tutta la gente e sono riuscita a segnare da tre punti. L’ultimo canestro della partita. Il boato. Quello è stato uno dei momenti più belli che ricordo. Il primo scudetto e l’ultima partita. Che poi era l’ultima mia partita, conquistavo la stella dei dieci scudetti segnando un canestro, invasione di campo, portata in trionfo. Non potevo chiudere in maniera migliore”.

Quali sono stati gli allenatori più importanti per Lei e le giocatrici con cui ha più legato?

“Il mio allenatore più importante è stato sicuramente Aldo Corno, il più presente nella mia carriera. Mi viene da dire Dante Carzaniga, che mi diede il ruolo di capitana, ai tempi, e sicuramente Fabio Fossati nell’ultimo periodo della carriera. Lui mi ha dato lo spirito e la voglia di continuare a vincere ancora nonostante avessi già vinto tutto il possibile. Mi ha dato lo stimolo per continuare a giocare ad alto livello, ha condiviso che il lavoro paga, il suo modo di allenare e lavorare lo condividevo molto e questo ha fatto sì che continuassi a giocare gli ultimi anni. Di giocatrici invece ce ne sono tante, parlo delle più significative. Ce n’è una che è Laura Gaudenzio, con cui sono arrivata in Comense. Lei di Torino, io ragazzina di provincia. Siamo amiche ancora adesso. Lei ha smesso molto prima di me. Poi Mara Fullin, un grande esempio e una giocatrice che ha insegnato tanto a tutte quante quando è arrivata a Como, così come Cata Pollini. Per l’amicizia oltre la pallacanestro, sicuramente Elena Paparazzo e Mariangela Cirone. Lei poi con una dedizione incredibile, un’altra ragazza con una mentalità che è stata decisiva per portarla ad alti livelli. Io posso ritenermi fortunata, ho giocato con le più forti giocatrici dei miei tempi! (ride) Macchi e compagnia erano molto giovani ai tempi, un po’ anche per questo con loro il legame è stato minore rispetto a queste che erano più vicine alla mia età”.

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Credit: Ciamillo

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