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Simone Zanotti, basket: “Con Repesa mi aspetto di lavorare e migliorare tanto. Ho aspettato Pesaro, voglio rifarmi della scorsa stagione”

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Simone Zanotti, nel vasto ambiente della pallacanestro italiana, rappresenta l’uomo che, con pazienza, lavoro e dedizione, ce l’ha fatta. Tanti anni di serie minori lo hanno forgiato, Pesaro gli ha dato la chance, nel 2018, di calcare i campi più importanti d’Italia, tra i quali quello in cui è lui stesso a giocare. E il torinese, nella buona come nella cattiva sorte, ha sempre risposto presente, non tirandosi indietro: non per caso la società marchigiana ha deciso di ripartire da lui, nell’impianto che verrà costruito da Jasmin Repesa. Lo abbiamo raggiunto per un’intervista telefonica ricca di spunti: dall’ultima annata a quelle della B, fino alle idee su Paul Eboua e Federico Mussini.

Dopo che Pesaro ha confermato la permanenza in A, sei stato, se non il primo, uno dei primissimi a credere ancora nel progetto della Vuelle. Che cosa ti ha spinto a restare di nuovo?

“Ho voluto aspettare un attimo, ritardare anch’io il mercato perché volevo aspettare Pesaro per vedere come si muoveva. Quando ha preso Repesa è stata una scintilla positiva per me, sia come allenatore, che è di un certo spessore, sia per come si sono mossi, per il progetto che c’è dietro. Dalla base sembra ci sia qualcosa di più solido. Questo mi è piaciuto tanto, anche perché Pesaro nei miei confronti si è sempre comportata bene, come io ho fatto con loro. C’è grande stima da parte di tutti e due. Ho abbracciato in pieno questo progetto di medio-lungo termine. E poi ho rifirmato lì perché voglio che quest’anno sia un po’ di rivincita rispetto a quello scorso, che ci ha lasciato un po’ tutti quanti, specialmente i giocatori e anche tutta la città di Pesaro, con un grande amaro in bocca. La voglia di rivincita è tanta”.

Che effetto ti fa la prospettiva di essere allenato da uno come Repesa, con tutta l’esperienza che ha?

“Grande motivazione. Quella aiuta sempre tanto. Mi aspetto poi di lavorare tanto, perché ho avuto modo di fare due chiacchiere con lui, mi ha spiegato che è uno che lavora parecchio, che aiuta anche a migliorare individualmente il giocatore e la persona. Sotto questo profilo è fondamentale. Mi aspetto di lavorare e migliorare tanto. Si spera di portare un po’ più di risultati positivi a casa”.

Anche perché, come dicevi, l’anno scorso è stato un po’ disgraziato con una sola vittoria. Eppure all’inizio il gruppo, sulla carta, non sembrava nemmeno male, con Eboua e Barford tra gli altri.

“No, assolutamente. All’inizio la squadra è stata costruita puntando molto sul talento generale dei giocatori presenti. Però si è fatto un po’ sopraffare dall’inesperienza di tutti quanti. Il mancato arrivo di DeJuan Blair, che sarebbe stato il più vecchio, ha fatto sì che lo fossi io, che avevo 26-27 anni. Una squadra molto giovane. Durante il campionato, quindi, ci sono stati tanti problemi legati all’inesperienza e giovinezza della squadra. Non avevamo nessun punto di riferimento solido, nessuno a cui dare la palla nei momenti di bisogno. Eravamo un po’ disorientati in linea generale. Questo ha fatto sì che non siano arrivati i risultati”.

Fondamentalmente non poteva nemmeno bastare Lydeka, che ha fatto un mese.

“No. Lui, nella sua indole, è comunque una persona seria, che lavora tanto, ma ha già i suoi anni alle spalle. Lui è un leader, però messo in una squadra di questo tipo va un po’ in difficoltà perché sarebbe l’unico più vecchio, in mezzo a tutti ventenni o dintorni. Anche uno come lui, messo in una squadra di quel tipo lì, fa fatica”.

Parlando invece di Paul Eboua: cosa pensi possa riuscire a ottenere dal draft NBA?

“Ho parlato con Paul poco tempo fa e mi ha detto che si sta allenando tanto per il draft, che è il 16 ottobre. Per la sua giovane età ha tutte le caratteristiche per entrare in quel mondo, perché ha un fisico che in Serie A farebbe invidia a persone molto più grandi che si allenano da un sacco di tempo. Quindi diciamo che lui deve allenare tanto la tecnica, perché da quel punto di vista è un pelino indietro. Quando allena quella diventa molto più completo, e allora per gli avversari ci saranno dei problemi, perché lui è un animale, non ha paura di andare a schiacciare, di prendersi delle responsabilità. Anche caratterialmente è molto propenso verso quel tipo di mondo. Gli auguro tutto il meglio, perché se lo merita”.

Cosa vuoi dare ancora all’ambiente della Vuelle nei prossimi due anni?

“Un po’ l’ho detto anche all’inizio. Il mio obiettivo personale è di migliorare il più possibile. Parlando di un contributo a Pesaro, alla città, è dare questa rivincita per quello che è successo l’anno scorso, che è un fastidio, un amaro in bocca che mi voglio assolutamente togliere. Voglio che ci siano più risultati quest’anno, più gioie, più felicità in tutta la città perché Pesaro è una piazza storica e se lo merita”.

Fra l’altro, nonostante tutto, l’anello inferiore del palasport era quasi sempre pieno, il che dimostra quanto la città resti affezionata.

“Io ricordo forse una o due partite al massimo in cui non c’era la gente presente come al solito, però la stragrande maggioranza delle partite c’erano sempre cinquemila persone al palazzo. E magari era la decima partita di fila persa. La passione a Pesaro è sempre costante, indipendentemente dal risultato. Se si vince, da cinquemila arriviamo a settemila in un attimo, perché Pesaro è così: si accende subito, essendo una piazza storica che vive solo di basket”.

Tu come giocatore hai vissuto particolarmente l’ambiente delle serie minori. Com’è arrivare in Serie A facendo tutta la gavetta?

“È stata dura, da un lato, però secondo me è l’abitudine che frega. Io ho giocato 4-5 anni in Serie B, e ti porta ad abituarti a un certo livello, un certo tipo di intensità. Poi quando vai ad allenarti o a giocare con squadre di A2 e soprattutto A capisci che l’intensità, i contatti, la fisicità sono totalmente diversi. Ti devi abituare a un altro ritmo, ma anche lì dopo un mese o due non ci pensi più a com’era prima. L’abituarsi di nuovo è veloce. Parlando del passo per arrivare in A, è sicuramente più lento. Però questi anni di gavetta da una parte mi sono serviti a livello mentale. Quando ho capito che potevo giocare a livelli più alti, allora si è accesa la lampadina. Le serie minori ti aiutano anche a forgiare il carattere. Sono importanti anche per quello. Poi la Serie A è tutta un’altra storia”.

È anche vero che nell’ambiente della B ti abitui ad avere una certa pressione e soprattutto ad avere il fiato sul collo del pubblico. In breve, se sopravvivi alla B, sopravvivi a tutto.

“Io me le son fatte tutte le categorie, dalla D alla A, da quando avevo 14 anni. Sono d’accordo con te sul fatto che se sopravvivi alla B puoi sopravvivere a tutto, perché lì non è che ci sono i contatti. Lì ti picchiano proprio. È un po’ diverso. Gli spazi sono sempre più stretti, si fa fatica ad arrivare più vicino a canestro perché magari ti arrivano mazzate a destra e a sinistra, quindi è un po’ diversa la pallacanestro”.

Tra quelle squadre in cui ti sei trovato, c’è anche Lucca. Ricordi quello che accadde esattamente quando la squadra fu esclusa dal campionato per la vicenda dei pagamenti?

“No, perché successe l’anno dopo, quando giocavo a Torino. Sono stato a Lucca, abbiamo finito l’anno e poi non mi ricordo bene. Però c’erano dei miei ex compagni di squadra che mi dicevano che non prendevano gli stipendi da tre mesi. Però non saprei dire esattamente cosa sia successo, tranne il fatto che non finirono il campionato”.

All’interno di queste esperienze delle minori, quale ritieni sia stata la più importante?

“Sicuramente quella a Porto Sant’Elpidio, l’anno precedente la Serie A. Però in linea generale un po’ tutte quante le società di B in cui sono stato mi hanno cambiato molto e insegnato tanto a livello di testa, di come comportarsi fuori dal campo. Se devo dire grazie, lo devo dire a più società. In particolare a Porto Sant’Elpidio che ti ha fatto migliorare tanto, poi ho avuto l’opportunità di giocare tanto, proprio nel ruolo che piace a me. Quindi lì sono migliorato tanto, e poi c’è stata la chiamata importante, di Pesaro, della quale ho approfittato subito”.

Andavi a 14 di media.

“Ci sono campionati in cui ho fatto anche meglio a livello statistico personale, però a livello generale, di squadra, di quello che ho appreso durante quell’anno penso che Porto Sant’Elpidio, ma anche Monteroni, una situazione molto diversa, sono cose che ti insegnano tanto, fanno pensare tanto e cambi. Si matura”.

Fra l’altro una delle città in cui sei stato era Ruvo di Puglia, che è la città di origine di Gianluca Basile.

“Sì. Qui si parla di dieci anni fa, ormai sarà tutto cambiato. Là la pallacanestro era importante e mi ricordo che non avevamo fatto una bell’annata, ma anche per enormi problemi societari ed economici. L’annata è andata persa completamente”.

C’è la prospettiva di dover giocare nell’Adriatic Arena (oggi Vitifrigo, per sponsor) vuota o con limitazioni di pubblico. Se ci pensi, che effetto ti fa?

“Sicuramente non bellissimo. Lascerebbe un po’ di stucco, perché alla fine un palazzetto così enorme e bello sarebbe proprio sprecato se dovessero imporre queste nuove regole per giocare a porte chiuse. Lo sarebbe perché a Pesaro il pubblico è importante, fondamentale. E poi sarebbe uno spettacolo sprecato a livello di scena”.

Si sta discutendo anche della possibilità di giocare con le mascherine sportive, e questa cosa starebbe trovando un’evoluzione. Cosa ne pensi?

“Non so che differenza ci sia tra le normali e le sportive, ma ti assicuro che ho provato ad allenarmi con la mascherina e dopo 10 minuti l’ho tolta, perché non puoi respirare. Non è possibile fare allenamento. Io non ci sono riuscito. Se saranno diverse non ne ho idea, però secondo me la cosa è anche un po’ complicata a livello di respirazione”.

Diciamo che, secondo te, è meglio intervenire alla base, con i tamponi e i test, invece di rischiare questo genere di problemi.

“Assolutamente. Penso che la linea più seria da seguire, quella maestra, sia questa. Fare tutti i tamponi del caso e assicurarsi che tutti stiano bene, e giocare tranquilli”.

Tra tutti gli allenatori delle minori, qual è stato quello più importante per te?

“L’allenatore più importante è stato Andrea Menozzi, delle giovanili di Reggio Emilia dove io ho iniziato il mio cammino, il mio percorso. Lì Andrea per me è stato un grande pilastro: mi ha insegnato tante cose che magari non ho imparato subito, ma ho appreso quando avevo un po’ di esperienza alle spalle. È una cosa che mi è rimasta impressa. Come nome ti dico lui”.

Sempre parlando di coach, come hai trovato Federico Perego e Giancarlo Sacco e quali sono state le differenze tra di loro che hai potuto toccare con mano?

“Perego, sicuramente, ha meno esperienza di Sacco, perché ha fatto sempre il viceallenatore ed è poco che fa il capo allenatore, se non erro questo era il suo primo anno. È ancora inesperto sotto un certo punto di vista, ma dall’altro è sempre sul pezzo, si sbatte sempre per cercare qualsiasi soluzione per andare avanti, perché anche dopo 9, 10, 11 partite perse, lui era sempre lì che provava a inventarsi qualcosa e cercare di salvare un po’ la situazione. Per quel che riguarda Sacco è il contrario, perché è un allenatore di grande esperienza. Riesce a impostare una squadra in poco tempo, perché logicamente ha più esperienza”.

Tornando sui giocatori: c’è un discorso legato a Federico Mussini, che hai avuto come compagno. In NCAA andava anche bene, più volte, poi al ritorno in Italia ha avuto un po’ di difficoltà a riadattarsi. Tu come l’hai visto?

“Sinceramente bene. Quando giocavamo insieme, in campo, mi sono sempre trovato molto bene con lui. È classificato come play-guardia, anche se secondo me è un ottimo tiratore, e proprio per questo motivo è una buonissima guardia. In questo momento lo vedo di più in questo ruolo, anche se so che sta lavorando tanto per giocare playmaker, perché lo vuole. Però ha grandi doti nel tiro e questo lo aiuta molto nel ruolo di 2. Però in linea di massima mi sono sempre trovato bene con lui”.

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Credit: Ciamillo

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