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L’Italia è grande: gli Europei di basket 1983. L’apoteosi di Nantes, Dino Meneghin e gli azzurri piegano la Spagna

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Capita spesso di vederli, ancora oggi, partecipare a numerosi eventi organizzati in memoria di quel successo, gli azzurri che portarono per la prima volta il basket italiano sul tetto d’Europa nel 1983. A quasi quarant’anni di distanza, non s’è mai realmente spenta l’eco di quel trionfo, giunto in un’epoca che, per la nostra pallacanestro, fu davvero florida: un boom, quello degli Anni ’80, che vedeva i grandi palasport pieni, la passione traboccare praticamente ovunque e i risultati arrivare.

In particolare, al termine di quella stagione 1982-1983, erano accadute tante cose. Due squadre italiane erano arrivate alla finale di Coppa dei Campioni, com’era allora chiamata l’Eurolega: Cantù e Milano, allora sponsorizzate Ford e Billy, l’una guidata da Pierluigi Marzorati e Antonello Riva, l’altra da Mike D’Antoni e Dino Meneghin. In panchina c’erano da una parte Giancarlo Primo, che per 11 anni ha allenato l’Italia, e Dan Peterson, diventato uno dei simboli dell’Olimpia Milano. Quella finale la vinse Cantù (al secondo trionfo di fila) per 69-68, con Milano che nell’ultimo minuto recuperò dal 69-62 con un paio di intuizioni di Franco Boselli, che però sbagliò l’ultimo tiro; raccolse Vittorio Gallinari (che non è solo il padre di Danilo), che però si vide stoppare l’appoggio da Jim Brewer, zio di Doc Rivers e campione NBA con i Los Angeles Lakers nel 1982. Ma non fu l’unica Coppa vinta dalle italiane: la Scavolini Pesaro vinse, per la prima volta, la Coppa delle Coppe, battendo i francesi dell’ASVEL per 111-99 con Petar Skansi in panchina e Mike Sylvester, Dragan Kicanovic e Walter Magnifico in campo.

A proposito di campioni NBA, un altro ne era giunto a Roma, in quella stagione: Larry Wright, che assieme all’arrivo di Valerio Bianchini in panchina aveva dato un’altra dimensione al Banco già fornito di una valida ossatura italiana, con Enrico Gilardi, Stefano Sbarra, Fulvio Polesello e Roberto Castellano a rappresentare il quartetto dei romani e Marco Solfrini (rimasto fuori dagli Europei per infortunio), che purtroppo non c’è più da quasi due anni, a prendersi il ruolo di “Doctor J italiano”, per la sua apertura alare infinita. Quel BancoRoma riuscì in parecchie imprese: chiuse al primo posto la regular season, riaprì al basket il PalaEur e poi, di fronte a quasi quindicimila persone a partita, sconfisse in rimonta prima Cantù e poi Milano, portando per la prima volta lo scudetto al di sotto della linea di Bologna dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Dei giocatori citati, Dino Meneghin, Pierluigi Marzorati, Antonello Riva ed Enrico Gilardi furono chiamati per gli Europei in Francia. Assieme a loro Carlo Caglieris, Romeo Sacchetti e Renzo Vecchiato dell’Auxilium Torino, Alberto Tonut di Trieste, Marco Bonamico, Roberto Brunamonti e Renato Villalta della Virtus Bologna, Ario Costa di Brescia. In panchina, Sandro Gamba, che la Nazionale l’ha allenata in due tempi e per complessivi 11 anni. Furono otto gli incontri di preparazione giocati, con sei vittorie e due sconfitte. Quelle due, però, portavano il nome della Jugoslavia, e furono anche nette, per 87-72 a Novi Sad e per 106-88 a Kragujevac.

Venne poi il giorno dell’esordio, il 26 maggio 1983, a Limoges, con la Spagna, che in panchina aveva Antonio Diaz Miguel e in campo una coppia assortita benissimo: il “cardiologo” del playmaking Juan Antonio Corbalan e un altro Juan Antonio a realizzare, che di cognome faceva San Epifanio e tutti chiamavano Epi, 18 anni al Barcellona, una delle più forti ali piccole europee di sempre, 239 presenze e 3330 punti con la maglia della Nazionale spagnola. Fu una partita dura, tesa e incerta fino all’ultimo. A 32 secondi dal termine l’Italia era sotto di un punto e senza la palla in mano, ma un guizzo di Villalta consentì un recupero di palla trasformato in canestro da Marzorati (75-74), mentre Diaz Miguel protestò vivacemente, senza nemmeno essere troppo diplomatico, per far notare la difesa un po’ eccessiva, a suo dire, degli italiani.

Il giorno dopo, gli azzurri affrontarono la Svezia, la squadra meno forte del torneo, che pure riuscì a spingersi, approfittando delle fatiche dell’Italia nel giorno precedente, fino al vantaggio a fine primo tempo (42-40). Gli uomini di coach Gamba invertirono però la rotta nella ripresa, con Riva a fare del canestro avversario un bersaglio ideale con 24 punti e la vittoria per 89-74. Ancora più netta fu la vittoria contro la Grecia, che schierava sì un giovane Nikos Galis, che sarebbe diventato uno dei più grandi giocatori europei di ogni epoca (e che realizzò 34 punti), e Panagiotis Giannakis (23) che sarebbe anch’egli diventato stella in campo e in panchina, ma a parte loro non aveva (ancora) una squadra in grado di supportarli. Fu un 108-83 senza discussioni, con Dino Meneghin immarcabile: 29 punti per lui, 19 per Vecchiato e 18 per Riva.

Giunse poi una partita un po’ particolare, quella con la Francia: la stampa del posto provò a rivangare i ricordi di un recente BancoRoma-Limoges in Coppa Korac in cui il finale fu infuocato anche oltre misura e, nel caos generale di oggetti in campo e agitazione, fu attribuito a un tifoso l’aver ferito il presidente del Limoges, Popelier, quando in realtà fu un suo giocatore a colpirlo involontariamente. Al Limoges giocava Faye, che poco fece, così come il resto dei francesi, annichiliti da un’Italia in grande spolvero e trascinata questa volta da Riva: 105-80. Fu anche il giorno di Bonamico, a quota 13, e delle lotte intestine alla Francia stessa che esplosero in quella partita.

Venne dunque il 30 maggio, giorno di Italia-Jugoslavia. Siccome la Spagna aveva battuto gli slavi, la situazione era molto semplice: vincere voleva dire primo posto nel raggruppamento, perdere equivaleva al terzo e all’esclusione dalle semifinali. Quella Jugoslavia era una fucina di giocatori storici, da Dragan Kicanovic a Kresimir Cosic, passando per Drazen Dalipagic, tutti nomi ammirati anche nel nostro campionato. Debuttò anche un giovanissimo di nome Drazen Petrovic, già allora talento straordinario. Fu un match difficile: Dalipagic mise a segno 15 punti nel primo tempo, gli azzurri finirono sotto 36-42. Negli spogliatoi, Gamba fece in modo di avere non un aumento del ritmo, ma una maggior pressione difensiva. Funzionò. Ad andare a nozze con tutto questo fu Gilardi, che a furia di andare in contropiede segnò 26 punti e fu fattore decisivo.

La partita, però, è ricordata anche per un altro motivo: una rissa che ancora tutti quelli che possono ancora parlarne ricordano molto bene. Dopo che già nel primo tempo una gomitata di Bonamico aveva mandato a terra Kicanovic, nel secondo i nervi esplosero. Tutto nacque da uno scontro tra Petrovic e Gilardi, che fu calmato molto a fatica. Ad acque quasi piatte, Kicanovic colpì con un calcio in mezzo alle gambe Villalta, per poi fuggire inseguito da Gamba e dal fisioterapista azzurro Sandro Galleani. A quel punto non ci fu più modo di fermare una battaglia che proseguì sui tavoli della stampa, con Goran Grbovic che estrasse un paio di forbici, requisite all’istante. Dopo qualche minuto di caos, tutto tornò nella normalità e la partita si concluse con il primo successo dell’Italia sulla Jugoslavia in manifestazioni ufficiali dopo 28 anni, per 91-76.

A seguito della rissa ci furono sanzioni per Grbovic (fine del torneo), Gamba, Galleani, Bonamico e Kicanovic (una partita di stop). L’Italia giunse in semifinale, a Nantes, da imbattuta e si trovò di fronte l’Olanda, sapendo che il giorno prima la Spagna, quella Spagna affrontata nel girone eliminatorio, aveva battuto l’Unione Sovietica del colonnello Gomelsky in panchina e di un giovane Arvydas Sabonis (che sovietico non si sentiva per niente) in campo. Quel 95-94, in terra iberica, fece impennare la popolarità del basket a enormi livelli.

Per gli azzurri, contro la sorpresa del torneo, il compito non fu difficile. L’Olanda, pur priva di grandi stelle e anche perdendo nettamente dalla Cecoslovacchia di Stano Kropilak e dall’Unione Sovietica, riuscì ad agguantare il secondo posto nel suo girone battendo Israele, che aveva Miki Berkowitz, la Germania di un giovanissimo Detlef Schrempf, futuro protagonista in NBA, e la Polonia. L’Italia condusse quella partita in maniera perfetta, con un primo tempo concluso sul 42-31 e poi un parziale devastante di 24-0 nel secondo. Il finale e la finale arrivarono con l’88-69 stampato sui tabelloni del Palais des Sports de Beaulieu.

Italia-Spagna all’inizio, Italia-Spagna alla fine. Una Spagna che, oltre a Epi e a Corbalan, aveva anche altri giocatori di talento: Fernando Martin, tra i primi europei ad andare in NBA nel 1986 e scomparso troppo presto nel 1989, Chicho Sibilio, colonna del Barcellona al pari di Ignacio Solozabal, ma anche l’ala grande del Real Madrid Juan Manuel Lopez e il suo centro Fernando Romay. Real, Barcellona e Badalona fornivano materiale umano in abbondanza a quella Spagna, che avrebbe poi vinto l’argento alle Olimpiadi di Los Angeles 1984 e gettato le basi per un buon ciclo.

Quella partita non cominciò bene per gli azzurri, che nei primi dieci minuti ebbero qualche problema a mettere i granelli negli ingranaggi degli iberici. All’intervallo, però, si andò sul 45-38 in favore della nostra Nazionale, poi l’Italia prese il largo e arrivò, a dieci minuti dalla fine, sul 73-54. Una furiosa reazione degli spagnoli riaprì tutto in tre minuti (77-69), ma l’Italia, nonostante le uscite di scena di Meneghin prima e Gilardi poi per cinque falli, riuscì a tenere con efficacia nel finale. La celebre scena finale, dopo il 105-96 conclusivo, è quella di Caglieris che corre con il pallone in mano, lo bacia e lo alza al cielo, presto sommerso dagli altri suoi compagni di un viaggio concluso con gioia quel 4 giugno 1983.

Fu quella l’apoteosi di un periodo che, per la Nazionale, fu pieno di momenti gloriosi: il quarto posto (con beffa) dei Mondiali del 1978 nelle Filippine, l’argento delle Olimpiadi di Mosca 1980 battendo anche l’Unione Sovietica, il terzo posto agli Europei del 1985. Fu un ottimo momento anche per i club: il BancoRoma vinse Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale nel 1984 e poi la Coppa Korac nel 1986, Milano, sempre Olimpia ma prima Billy e poi Simac e Tracer per sponsor, fu campione in Korac nel 1985 e in Coppa Campioni nel 1987 e 1988, nel 1980 Rieti riuscì a vincere la Korac nel 1980 con un’impresa ancora oggi ricordata dalle parti del Terminillo, la stessa Cantù, prima delle due Coppe dei Campioni, vinse quattro volte la Coppa delle Coppe in cinque stagioni, l’ultima nel 1981, e in mezzo ci fu il successo di Varese nel 1980. Di momenti felici, però, per il nostro basket ce ne sarebbero stati altri. Uno di essi avrebbe portato la firma di un altro Meneghin: Andrea, il figlio di Dino. Che in Nazionale c’era ancora, ma da team manager.

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Credit: Ciamillo

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