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Wimbledon 2019, la classe immortale di Roger Federer che ha sconfitto il tempo

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A quasi 38 anni, Roger Federer è andato vicinissimo a trovare una vittoria che avrebbe avuto del leggendario a Wimbledon: quei due match point sull’8-7 non si sono, tuttavia, trasformati nel raggiungimento di quel nono successo ai Championships che lo avrebbero con ogni probabilità consegnato all’immortalità tennistica senza più alcun possibile dubbio.

Eppure lo svizzero ha dimostrato, ancora una volta, quello di cui è capace: sono davvero in pochi a essere arrivati alla sua età in condizione di raggiungere le fasi finali degli Slam. Il pensiero più recente corre indubbiamente alla celebre corsa di Jimmy Connors agli US Open 1991, ma quella semifinale a quasi quarant’anni fu un caso isolato nella carriera nativo dell’Illinois, mentre in questo caso parliamo di una continuità di rendimento quasi senza pari. Per trovare un giocatore ancora competitivo all’età di Federer o maggiore bisogna tornare indietro di quarant’anni, quando Ken Rosewall, che nessuno sa quanti Slam avrebbe potuto vincere se non fosse passato professionista o il tennis fosse stato diverso già negli Anni ’50 e ’60, arrivò in finale a Wimbledon e agli US Open nel 1974, a 21 anni di distanza dalla prima vittoria agli Australian Open e a 19 dalla prima agli US Open. Per dare un’idea della forza di Rosewall, basti dire che fu dell’australiano il primo Roland Garros dell’Era Open, nel 1968: nei precedenti 11 anni, quelli migliori della sua carriera, era nel circuito di Jack Kramer.

Quarant’anni e più dopo, Federer ha deciso di mettere in chiaro l’intenzione di volersi aggiungere alla schiera dei grandi senza tempo. Pochi numeri, i più recenti, parlano per lui: 31 finali Slam giocate, 12 a Wimbledon, secondo più anziano finalista nei quattro tornei maggiori dopo Rosewall. Questo senza contare l’immenso numero di altri primati di cui lo svizzero è detentore, ma che non bastano, e non possono bastare, a spiegare la ragione per cui ogni volta che compare in campo la maggioranza del pubblico sia a suo favore. E’ successo anche nella finale di Wimbledon contro Novak Djokovic: a ogni suo punto sono stati tutti lì, a spingere l’elvetico, ed è una situazione che il serbo conosce bene, perché l’ha affrontata numerosissime volte negli ultimi anni. In tanti si sono identificati con la classe di Federer, con il suo periodo difficile del 2013 e il suo ritorno: un punto di svolta lo ha rappresentato un’altra finale con Djokovic, quella di Wimbledon 2014, una sconfitta che più di tante vittorie lo ha consegnato alla leggenda. In più, è impossibile non attribuire un ruolo, nell’affetto che gli viene sempre tributato, al clamoroso rientro del 2017 dopo sei mesi di stop con la vittoria agli Australian Open.

Il numero 3 del mondo ha già dichiarato che, se tutti quanti ricorderanno questa finale come una delle più belle mai giocate, una pietra miliare nella storia di questo sport per tutte le emozioni regalate, lui cercherà di dimenticarla. A quasi 38 anni, ha ancora voglia di combattere, di lottare, di amare quello che fa, ed è la ragione per cui va avanti, il motivo per cui ha assoldato prima il suo idolo di sempre Stefan Edberg, poi il suo ex collega Ivan Ljubicic, per trovare ancora differenti armi per allungare la carriera e combattere contro i big vecchi e nuovi, da Nadal e Djokovic al trio che avanza Thiem-Zverev-Tsitsipas. Ed è per questo che cerca di dimenticare: vuole un’altra soddisfazione a tutti i costi prima di un ritiro che appare vicino, anche se nessuno sa quanto lo sia. Forse neanche lui, che vede il tempo passare pur cercando di fermarlo, e anche di sconfiggerlo.

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federico.rossini@oasport.it

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Foto: LaPresse

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