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Quel giorno perduto all’Heysel

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C’è un “prima” e un “dopo” in ogni cosa. Ma esiste anche un “mentre”, il momento in cui avviene un qualcosa che cambierà per sempre le cose. Quel “mentre” era un mercoledì, il 29 maggio 1985. Allo Stadio Heysel, a Bruxelles, si sfidavano Juventus e Liverpool per la finale di Coppa dei Campioni e quel che è successo è noto a tutti.

A distanza di oltre trent’anni da quei tragici eventi, Anthony Cartwright e Gian Luca Favetto hanno realizzato un libro a quattro mani (Il giorno perduto, 66thand2nd, 2015) dove il ricordo e il dolore per le vittime si mescolano sapientemente con la narrazione delle vite dei protagonisti. A Newport vive Christy, un ragazzo inglese che stenta a trovare un lavoro stabile che gli consenta non solo di vivere dignitosamente ma anche una realizzazione umana e sociale. Il suo stesso sopranome, Monk (il Monaco), è sintomatico di una condizione esistenziale segnata dalla solitudine, dalle difficoltà familiari e riscattata, solo in parte, quando si trova nel KOP, la curva dei tifosi del Liverpool. Il viaggio verso Bruxelles diventa così l’inconscio desiderio di vivere un’esperienza differente dalla quotidianità dell’Inghilterra guidata da Margaret Thatcher, da un senso di fuga e dalla voglia di provare sensazioni diverse. Da Breglio, invece, a bordo di una vecchia Renault 4 partono quattro amici, tifosi della Juventus.

Sono Domenico Dezzotti, detto Mich, studente del Politecnico di Torino, Angelo Peraglie, impiegato alla Olivetti, Charlie, operaio edile ed infine Mario Morello, soprannominato Miranda, commesso in un negozio. Sono quattro ragazzi legati dalla passione per il calcetto e per l’ammirazione di Gianni Koetting, giovane promessa della Vecchia Signora e proveniente dalle loro parti. Per questi quattro ragazzi, il viaggio verso Bruxelles è il momento giusto per capire cosa fare delle loro vite, confrontare le loro esperienze e manifestare le loro aspettative esistenziali. E lungo la strada per la capitale belga, i veri protagonisti diventano così il viaggio e l’attesa. Il viaggio perché è l’occasione giusta per cercare di chiudere una fase della vita e aprirne un’altra; l’attesa perché, mentre l’inglese e gli italiani sono sulla strada per raggiungere Bruxelles, si palesa chiaramente la speranza di una vita migliore per tutti loro. E proprio fuori dallo stadio, in quei convulsi momenti segnati dalla violenza e dalla morte, Christy e Mich, l’inglese e l’italiano, si sfiorano con i loro sguardi in un momento sospeso nel tempo, vite così lontane eppure così vicine.

E sullo sfondo, scorre la tragedia dell’Heysel: i trentanove morti, gli oltre seicento feriti e lo svolgimento surreale della partita. Tutto come in un film a cui assistiamo impotenti, quel “mentre” in cui cambia la storia del calcio e la vita di tante persone: “Il vuoto è arresto del mondo, del suo clamore, dei colori, gli odori, il caos. Abbatte il muro del suono e scardina il tempo. Gli attimi non sono più attimi. L’orrore è muto e mette fuori uso gli orologi”. Il giorno perduto è un romanzo che entra immediatamente nel cuore di un lettore per via della sua semplicità e del suo modo di raccontare la semplice quotidianità di persone normali. È la vita di giovani uomini che vedevano in questa partita la possibilità di dare un senso di svolta alle proprie esistenze, di sentirsi parte di un qualcosa di più grande. Com’è stato sottolineato da diverse parti, non è un libro sul calcio ma sulla vita, l’attesa e il viaggio come esperienza che segna indelebilmente l’esistenza e dalla quale, volenti e nolenti, si torna cambiati. E come gli stessi autori scrivono, “ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio”.

 

di Simone Morichini





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