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Atletica

Aneddoti Olimpici – Tokyo 1964: Abdon Pamich, il cespuglio-gabinetto e la marcia del Campione Olimpico

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Il cespuglio misericordioso di Abdon. Tokyo 1964.

Dopo questi di Rio, i Giochi si sposteranno a Tokyo nel 2020. Già la capitale della nazione del Sol Levante ha ospitato un’edizione nel passato, e giusto davanti a me ho un classico “Topolino alle Olimpiadi” che la Disney vendette nelle edicole italiane nel settembre del 1964: Pippo e topolino rimangono stupefatti dalla modernità del Giappone, i loro ospiti gli mostrano impianti sportivi al limite della fantascienza.

Ma, insieme alla tecnologia, i giapponesi amano moltissimo la rigorosa etichetta e il rispetto. Nel 1964, durante la cerimonia di apertura dei Giochi, la rappresentativa della Nuova Zelanda si esibì in inchini burleschi rivolti all’Imperatore Hiro Ito in tribuna, e così accadde che tutto il Giappone se ne offese da morire.  E calcolate che la fiaccola venne accesa da Yoshinori Sukai, nato a Hiroshima nel giorno dello sgancio della bomba atomica. Insomma, c’era poco da scherzare!

Una delle cose da evitare era l’incorrere in atti contrari alla pubblica decenza, che in Giappone aveva l’asticella alzata molto di più che in Occidente. Emblematico fu il caso del nostro marciatore Abdon Pamich. Nativo di Fiume e appena venticinquenne – un “baby” nella dura disciplina della marcia –  Pamich aveva colto il bronzo nella 50 km a Roma ’60, per cui si presentava come uno dei grandi favoriti per l’oro. Il suo allenatore, Pino Dordoni, altro mito della marcia azzurra, era sicuro che il suo pupillo ce l’avrebbe fatta. Tuttavia, i regolamenti severissimi approntati dagli organizzatori nipponici proibivano ai coach di seguire il loro atleta durante la prova.

Dordoni, un piacentino furbissimo, scavallò l’ostacolo escogitando un trucco tanto semplice quanto efficace: pedinare Pamich salendo in velocità da un treno all’altro (la nippopuntalità cadeva a fagiolo…) aiutandosi nei tratti “vuoti” con vigorose pedalate in bicicletta.

Lo stratagemma funzionò. A metà gara, Pino-angelo-custode era vicino a Abdon, lui tranquillo a fare il passo con un inglese a filo. Era Paul Nihil, londinese di Croydon, quartiere a sud fino a quel momento noto solo per l’ambientazione di una novella di Sherlock Holmes. Un brutto cliente, ma non bruttissimo.

Pamich si sentiva sicuro, vicino al trionfo sognato per quattro anni, quando accadde l’imprevisto: un the troppo freddo, bevuto all’ultimo rifornimento volante, gli scombussolò il pancino. Lo stomaco dell’istriano era più che piatto, ma qualcosa di solido dentro c’era, ragion per cui gli venne urgentissimo il desiderio di andare al bagno. Come fare? La strada era costeggiata da spettatori giapponesi, comprese certe deliziose signore con l’ombrellino di seta per ripararsi dal sole a picco.

Sorridevano, si inchinavano salutandolo con grazia tutta orientale: certo non poteva deluderle “scaricando” in pubblico tutto il suo dolore. Pamich, allora, cercò con gli occhi Dordoni per chiedere consiglio. Il significato era lampante: “Lo faccio ora?”. Il coach fece segno di sì con la testa. Abdon, con mossa fulminea, riparò dietro una siepe e si liberò l’anima.

Fortunatamente, la telecamera issata sull’automobile non lo seguì nella sua fuga laterale, ma l’italiano sentì su di sé l’imbarazzo profondo, costernato, orrificato, degli attoniti spettatori che fino a un istante prima l’avevano tanto ammirato. Non ci pensò: l’importante era averlo fatto. Riguadagnò i quaranta metri persi dall’inglese e, felice e leggero, s’involò verso l’oro olimpico.

 

di Marco Impiglia, Direttore Editoriale della Società Italiana di Storia dello Sport (SISS)

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marco impiglia - (1)

 

 

 

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