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Rivoluzione e leggenda: Jonah Lomu, il gigante buono che ha cambiato il rugby

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Vent’anni fa, con un fisico del genere, nel rugby chiunque avrebbe giocato al massimo in terza linea, tra quelli grandi, grossi e cattivi. Tranne uno. Già, perché in Nuova Zelanda, negli anni ’90, qualcuno tentò un azzardo, spostando un giovane gigante dal fisico imponente dal reparto degli avanti alla trequarti, più precisamente all’ala, dove allora giocavano soltanto atleti piccoli, agili e scattanti. Quella mossa è diventata ben presto una rivoluzione nel corso degli anni (non è un caso se i vari North e Savea occupino proprio quel ruolo), mentre Jonah Lomu è andato decisamente oltre: della palla ovale è diventato una leggenda. 

Fin dall’inizio, del resto, si poté intuire quale sarebbe stato l’impatto di Lomu (nato da genitori tongani) sul pianeta rugby. Non c’era solo la potenza fisica ad impressionare, con il suo 1.96 m per 126kg, ma anche una velocità di base fuori dal comune con i sui 10″08 sui 100 metri piani, corsi quando frequentava le scuole superiori. Un uomo nato per diventare un atleta, nonostante sia cresciuto in uno dei quartieri più poveri di Auckland (Mangere) e malgrado i rapporti conflittuali con il padre, oltretutto in un ambiente tutt’altro che pacifico come i sobborghi della città neozelandese. Come ha raccontato lui stesso, d’altronde, “non avrei potuto vivere senza rugby: sarei senz’altro morto o finito in galera”. La salvezza arriva a 14 anni, quando la madre lo iscrive al Wesley College dove in tanti notano le sue straripanti doti atletiche e fisiche, fino a che la Counties Manukau (la Federazione del sud della città) non lo prende sotto la sua ala protettrice, iniziandolo alla palla ovale. Il percorso, da quel momento in poi, è rapido ed inesorabile. Nel 1993 veste per la prima volta la maglia della nazionale, quella Under 19, mentre l’anno successivo vestirà quella dell’Under 21 e soprattutto guiderà la nazionale di rugby seven al successo nelle prestigiose Hong Kong Series. Ma non finisce qui.

 

Il 1994, infatti, è anche l’inizio della Storia, di quelle con la S maiuscola non a caso. L’allenatore degli All Blacks, Laurie Mains, lo fa esordire nel test match (perso) contro la Francia a Christchurch, in cui Lomu diventa il più giovane neozelandese ad aver vestito la maglia con la felce argentata a soli 19 anni. E le sue qualità, di fatto, sono già note alla maggior parte della platea internazionale. Da qui a diventare un mito della palla ovale, però, il passo non è certamente breve. Sbagliato. L’anno successivo, nonostante i soli due cap, Mains inserisce Lomu nella lista dei convocati per la Coppa del Mondo in Sudafrica, passata alla storia per il ritorno degli Springboks sulla scena internazionale dopo la fine dell’Apartheid, grazie a Nelson Mandela. E non solo. Il Mondiale lo vinceranno proprio i padroni di casa con il famoso drop di Joel Stransky nei tempi supplementari, proprio contro gli All Blacks, ma l’intero pianeta viene sconvolto dalla potenza del numero 11 in maglia nera. Due mete contro l’Irlanda, una contro la Scozia e quattro contro l’Inghilterra, travolta dallo strapotere fisico ed atletico di quello scatenato ventenne, capace di mettere al tappeto i britannici con una prestazione entrata successivamente nei 100 migliori momenti di sport della storia. Nella prima meta, in particolare, è racchiuso tutto Jonah Lomu: velocità, agilità e forza fisica devastante. A farne le spese è stato soprattutto Mike Catt, l’inglese passato alla storia soprattutto come l’uomo su cui Lomu, di fatto, passeggiò sopra prima di marcare. Il capitano dell’Inghilterra, Will Carling, dirà a fine partita: “E’ un mostro, prima se ne va e meglio è”. Serve aggiungere altro?

Dall’ingresso nel mito all’inizio del calvario, tuttavia, il passo è ancora più breve. Nel 1996 gli viene diagnosticata una disfunzione renale, a causa della quale è costretto a fermarsi tra la fine di quell’anno e l’inizio del 1997. Cambia anche franchigia, passando dai Blues ai Chiefs, strabiliando tutti anche con la maglia dei club. Ma è sempre con gli All Blacks che, ai Mondiali 1999, dimostra ancora una volta di essere il più forte di tutti marcando ben otto mete. Resta ancora una volta a secco, ma domina in lungo e in largo ogni partita. Lo farebbe anche in semifinale, contro la Francia, con due marcature sensazionali, eppure i suoi perdono il treno per la finale. La lotta più grande, tuttavia, Jonah ha continuato a combatterla fuori dal campo. Le presenze con la maglia del club (seguirà un trasferimento agli Hurricanes) e della nazionale sono regolari, ma nel 2002, a soli 27 anni, Lomu gioca la sua ultima partita in maglia All Black: è un Galles-Nuova Zelanda, i suoi vincono 17-43 senza mete di Jonah.

Il 2003 è uno degli anni più duri. La malattia renale non si arresta, anzi, le condizioni di salute peggiorano rapidamente. L’ingresso in dialisi è ineludibile, mentre l’attesa per l’altrettanto inevitabile trapianto è estenuante. Nel 2004, dopo otto mesi dal termine della dialisi, giunge il momento dell’operazione, resa possibile grazie alla donazione di un suo amico e speaker radiofonico, Grant Kereama. La sua carriera, tuttavia, sembra ai titoli di coda ma non per i Cardiff Blues, che gli offrono un contratto fino al termine della stagione nel 2005. Il ritorno in campo di Lomu, oltretutto, avviene in Italia, precisamente al San Michele di Calvisano per un incontro di Heineken Cup dove tifosi e appassionati tributano all’eroe neozelandese un’emozionante standing ovation. L’avventura gallese termina per un infortunio alla caviglia nel 2006 e la successiva impossibilità nel trovare una squadra lo porterà ad annunciare il ritiro dall’attività agonisitca nel 2007, a 32 anni. L’ingresso nella Hall of Fame è praticamente automatico, così come l’avanzare della malattia degenerativa. Riprova anche a giocare a Marsiglia nel 2009, ma senza successo. Il calvario prende l’ennesima piega tragica nel 2011, quando Lomu viene ricoverato ad Auckland perché il nuovo rene stava dando segni di cedimento. Da quel momento in poi sarà un susseguirsi di dialisi, ricoveri e progressivi peggioramenti, fino alla tragica notizia della notte.

A quel gigante buono, dal sorriso malinconico e dall’infinita forza di volontà, non era mai mancato l’affetto di tifosi ed appassionati, costantemente vicini al rugbista più conosciuto ed amato della storia. In campo non lo ha mai placcato nessuno, ma fuori Jonah ha trovato il difensore peggiore. Nemmeno le 37 mete in 62 partite con gli All Blacks e le 15 marcate in due edizioni della Coppa del Mondo (record tuttora imbattuto) riescono probabilmente a spiegare per intero la sua leggenda. Il suo posto tra le icone, tra i miti dello sport, se lo è già ritagliato da tempo. Al fianco dei vari Michael Jordan, Muhammad Ali, Pelè, Maradona, Usain Bolt e Jesse Owens (per citarne alcuni), c’è anche lui. C’è anche Jonah Lomu.

 

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