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Basket; Draft NBA 2022: Paolo Banchero e il grande passato degli Orlando Magic in fatto di prime scelte assolute

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Un dato balza all’occhio quando si parla del draft NBA e degli Orlando Magic. Situazione, questa, che mette certo Paolo Banchero su una scia importante, quella di giocatori che hanno segnato non solo un’epoca nella lega professionistica americana, ma anche l’intera storia della pallacanestro.

Per tre volte, in precedenza, i Magic avevano avuto la prima scelta assoluta. E nel 1992, alla prima occasione, capitò immediatamente il diamante: Shaquille O’Neal. 216 cm, oltre 140 chili, una mobilità esagerata per un corpo tanto potente e anche esplosivo. Shaq fin da subito è stato tutto questo, con un unico difetto: i tiri liberi. Non riuscì mai a tirarli bene, anche a causa di una frattura del polso in tenera età. In tutto il resto (tiri da tre a parte, che ovviamente non erano la sua caratteristica necessaria essendo un centro di peso) è stato dominante: parliamo di uno dei centri che hanno fatto la storia della NBA, e non soltanto per il three-peat ai Los Angeles Lakers unito al quarto titolo vinto con i Miami Heat nel 2006.

Finché il fisico gli ha consentito di essere fondamentale ha viaggiato su medie punti spaventose, tra i 26 e i 29 a stagione dal 1993 al 2003 solo per diventare spesso ancora più devastante nei playoff. Senza dimenticare che, per 13 annate consecutive, è andato in doppia cifra coi rimbalzi. Ma ridurre Shaq a tutto questo è sempre troppo poco, tanto più che oggi è stimatissimo analista e mantiene, attraverso i programmi che a volte fanno capo anche a lui, una grande verve di sorriso. Quello che non ha fatto fare ai dirigenti NBA nel momento in cui i canestri venivano, letteralmente e strutturalmente, giù dopo le sue schiacciate: dalla metà degli Anni ’90, se adesso questi difficilmente subiscono danni rilevanti, è anche “colpa” di Shaq.

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I Magic ebbero la scelta numero 1 anche nel 1993. Questa storia, però, racconta di qualcosa di diverso, perché Chris Webber con Orlando non giocò mai. Di fatto la pedina di scambio era lui, che si ritrovò subito spedito ai Golden State Warriors perché ai Magic non interessava lui come ala grande, ma Penny Hardaway per aggiungere un’altra opzione lontano dal canestro insieme a Shaq. La storia la fece comunque, perché divenne il primo sophomore, giocatore cioè al secondo anno di università, a essere scelto per primo. I migliori anni Webber li ebbe ai Sacramento Kings, che non per caso hanno ritirato la sua maglia numero 4.

Chi, invece, ai Magic ha giocato eccome e ha anche dato notevoli soddisfazioni è stato Dwight Howard. Si veniva dal clamoroso draft del 2003 e dalla creazione della nuova franchigia di espansione, gli Charlotte Bobcats. Howard, paradossalmente, non divenne Rookie of the Year (quel titolo andò a Emeka Okafor, poi mai diventato un fattore reale col passare degli anni), ma si distinse con gli anni quale centro tra i più difficili da marcare dell’intera lega. Nell’annata 2008-2009 fu lui a trascinare la franchigia dritta alle NBA Finals, ma i Los Angeles Lakers dell’era di Kobe Bryant con Pau Gasol, in quel momento, furono più forti.

E fu proprio in gialloviola che, nella stagione 2012-2013, avrebbe potuto formare un team fuori dalla realtà con lo stesso Kobe, Steve Nash e Metta World Peace, com’era diventato Ron Artest (adesso è Metta Sandiford-Artest). La realtà venne fuori in forma di infortuni, non suoi però: a lungo si è tenuto lontano da quei problemi, ma la sua grande intelligenza è stata quella di rimodellarsi, non più come superstar, ma come uomo in grado di uscire dalla panchina e fornire un ottimo contributo. Lo sanno ancora i Lakers, che a lui devono una certa fetta di anello nella bolla del 2020. Di Orlando, curiosamente.

Banchero viene dopo tutti questi nomi. E, in chiave italiana, arriva dopo Andrea Bargnani, anche se lo stesso nativo di Seattle ha smorzato i toni, chiedendo di non essere paragonato al Mago per un semplice motivo: proprio il luogo di nascita. Romano tout court Bargnani, di Seattle il nuovo uomo chiamato a guidare le sorti del basket tricolore, cui continua a richiamarsi. Sono passati 16 anni da quella chiamata. Allora c’era David Stern ad annunciare il nome, ora è il tempo di Adam Silver, ma l’emozione è sempre la stessa. L’inserimento sarà in un team che, nella stagione 2021-2022, ha faticato tantissimo: 22-60.E avrà bisogno, nel giro di qualche anno, di risollevarsi: dall’annata 2009-2010, l’ultima con finale di Conference annessa, sono arrivati solo quattro playoff, sempre terminati al primo turno, e tante, troppe stagioni negative. Forse non sarà invertita subito, la tendenza, ma la storia insegna che nel giro di qualche anno, con le prime scelte assolute spesso e volentieri si risale eccome.

Foto: LaPresse