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Quando Panatta sfidò Pinochet: la Coppa Davis del 1976 narrata da Dario Cresto Dina

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Il rosso era il colore dell’opposizione a Pinochet, il colore che le donne portavano nelle piazze, il colore della protesta, del coraggio e del sangue. Donne i cui figli, fratelli, padri o mariti erano stati torturati, uccisi, cancellati. Era semplicemente un segnale, volevo testimoniare in qualche modo la mia vicinanza e la mia solidarietà al popolo cileno […] Io e Paolo decidemmo di farlo e basta. Se la stampa se ne accorse e non lo scrisse è molto grave, se non lo capì è stato anche peggio”.

Il 18 dicembre 1976 è in programma il doppio della finale di Coppa Davis tra Cile e Italia. Adriano Panatta e Paolo Bertolucci entrano nel bollente catino di Santiago con indosso una maglietta rossa fiammeggiante, sfidando sportivamente il regime di Pinochet. E le parole dell’ex numero quattro del mondo non fanno che confermare la profonda consapevolezza che quei quattro ragazzi italiani e il loro capitano Nicola Pietrangeli avevano di quella trasferta cilena. Non si trattava più di una semplice partita di tennis per gli azzurri; era ormai una situazione che passava sopra le loro teste e la loro volontà ma che, tuttavia, affrontarono con la qualità che contraddistingue gli uomini con la schiena dritta: la determinazione. A distanza di quarant’anni da quei fatti, il vicedirettore di Repubblica Dario Cresto Dina ricostruisce la storia della finale dell’unica insalatiera vinta dagli azzurri mettendo finalmente in evidenza i meriti dei nostri tennisti e le loro vicende personali, lasciando sullo sfondo le polemiche che accompagnarono quelle giornate infuocate dal dilemma se partecipare o meno alla finale contro il Cile.

C’è subito da sottolineare che l’Italia era una squadra ricca di talento individuale ma povera di spirito di corpo, divisa tra due fazioni con Panatta e Bertolucci da una parte e Barazzutti e Zugarelli dall’altra: “Negli spogliatoi i due clan occupano panche opposte, negli allenamenti una coppia corre in un senso, l’altra nel senso contrario. Non esiste la fratellanza, non c’è neppure l’amicizia, ci sono però la forza e l’equilibrio tecnico”. I ragazzi sono ancora acerbi caratterialmente: “Sono estrosi, umorali, discontinui, spesso si imbizzarriscono, pestano i piedi nell’acqua delle loro qualità e la trasformano in fango”. Per cercare di dare un’anima a questo gruppo, viene nominato capitano il più forte tennista italiano di sempre e personaggio di grande polso: Nicola Pietrangeli. La sua determinazione e la sua incrollabile volontà di portare l’insalatiera in Italia saranno una delle carte vincenti di tutta la Coppa Davis italiana del 1976. A Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti che gli ha appena comunicato la contrarietà del Premier alla trasferta cilena, Pietrangeli risponde molto nettamente: “Ah sì? Allora di’ al tuo presidente che mi deve togliere il passaporto perché io ci vado lo stesso”. Era un’occasione unica quella del 1976 e il capitano coglie immediatamente lo spirito del tempo perché si rende conto della forza dei suoi giocatori e dei limiti delle altre squadre: “Fu a Londra, più che durante la semifinale con l’Australia, che capii che se la politica non ce l’avesse impedito quell’anno avremmo scritto i nostri nomi sulla Coppa Davis. Dissi loro: io sono il capitano e quando siete qui fate quello che dico io. Fuori potete pure prendervi a coltellate, la cosa non m’interessa”. E chi erano, allora, i nostri quattro moschettieri, i protagonisti immortali di quella cavalcata trionfale? Erano quattro ragazzi di umili origini che avevano trovato nel tennis un’occasione di riscatto e, forse anche per questo, non particolarmente amati dal grande pubblico. Tonino Zugarelli iniziò a giocare per necessità, non tanto per passione verso racchette e palline: “I giocatori in maglione della borghesia romana lasciavano buone mance ai raccattapalle per farsi perdonare di averli trattati come servi”. Paolo Bertolucci era un carattere schivo e taciturno, il compagno perfetto per Panatta; un uomo che non voleva i riflettori su di sé ed era un tennista consapevoli dei suoi limiti fisici a dispetto delle grandi qualità naturali: “Con lui [Dio] aveva esagerato nel dosare il talento, così pensò di riequilibrare il genio affibbiandogli un fisico da schiappa […] patendo non poco i sacrifici ai quali era costretto a sottoporsi”. Corrado Barazzutti rappresentava l’applicazione maniacale sul campo da tennis, un giocatore che aveva oltrepassato la sensazione della fatica in quanto consapevole di non avere dei colpi potenti e che doveva supplire con la tenacia, l’abnegazione e il continuo miglioramento. Il friulano era un tennista solidissimo e abilissimo. E Panatta? Panatta è il figlio del custode del circolo Parioli e non ha alcuna simpatia per quei ricchi borghesi con la racchetta in mano che vede quotidianamente giocare al club. Ma ha un talento smisurato e lo stesso Pietrangeli se ne accorge presto ai Campionati italiani quando il giovane Adriano lo batte regolarmente. Personaggio sui generis, l’ex numero quattro del mondo: “Adriano Panatta usava la racchetta come avevano sempre insegnato i padri, mettendoci però quel tanto di spirito libertario e di fantasia che lo resero celebre. Era uno spirito libero, concentrato e distratto, veloce e sornione, tenace e pigro, tutto nella stessa maniera e nello stesso istante”.

Non erano tempi felici. Il 1976 fu un anno difficile per la crescente disoccupazione, la mancanza di lavoro, le tensioni sociali e politiche. E il terrorismo che si faceva sempre più sanguinario. Ma, nonostante minacce, insulti e offese, Pietrangeli e i suoi ragazzi non cedono alle pressioni sapendo perfettamente qual è il loro dovere: andare in campo e giocare a tennis per rappresentare l’Italia. E neppure per un minuto presero in considerazione l’idea di non presentarsi a Santiago del Cile. Sul Corriere della Sera, Enzo Biagi commentò: “Se gli italiani, per disprezzare una dittatura, hanno bisogno di ricorrere a Panatta, significa che hanno sprecato trent’anni”.

Quella sul Cile sembrò una vittoria da archiviare presto. Questo, probabilmente, il fatto che ancora oggi amareggia i nostri azzurri: “Al nostro rientro in Italia fummo ignorati, il Cavalierato ci venne consegnato quasi di nascosto, come se la nostra vittoria fosse stata una vergogna, come se fossimo tornati stringendo una coppa rubata”. A quarant’anni di distanza dall’unico trionfo italiano, Cresto Dina ci restituisce la realtà di quei giorni in tutta la sua freschezza narrandoci tutte quelle storie umane, politiche e sportive che l’hanno resa possibile. E tutto per merito di quei sei chiodi storti, lo strano amuleto che Adriano Panatta portava sempre con sé nella borsa da viaggio.

Di Simone Morichini

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