Ciclismo
Alessandro De Marchi: “Due momenti mi hanno segnato. In questo ciclismo si stanno perdendo i rapporti umani”
Ci sono carriere che non si raccontano soltanto attraverso i numeri, le vittorie o le classifiche, ma attraverso la capacità di attraversare il tempo, adattarsi ai cambiamenti e restare fedeli a se stessi. Quella di Alessandro De Marchi è stata una carriera costruita con pazienza, giorno dopo giorno. Un percorso fatto di crescita graduale, di cadute dolorose e di ripartenze silenziose, di sacrifici che raramente finiscono nei titoli, ma che danno senso a ogni chilometro percorso. In quindici anni di professionismo, De Marchi ha vissuto epoche diverse del ciclismo, indossato la Maglia Rosa al Giro d’Italia del 2021, vinto sette corse, cambiato squadre e affrontato momenti che avrebbero potuto spezzare una carriera. Eppure è sempre rimasto fedele alla sua idea di ciclismo: un mestiere duro, sì, ma profondamente umano, fatto di lavoro, rispetto e passione. Non è stato un talento esploso all’improvviso, ma un corridore che si è costruito nel tempo, trovando il proprio spazio quando contava davvero. Oggi, con la serenità di chi ha scelto in autonomia il momento giusto per fermarsi, Alessandro De Marchi guarda al passato senza rimpianti e al futuro con curiosità. Ha appeso la bici al chiodo, ma non ha lasciato il ciclismo: lo osserva da una nuova prospettiva, pronto a viverlo con lo stesso entusiasmo, questa volta dall’ammiraglia della Jayco AlUla, la squadra in cui ha corso nelle ultime tre stagioni e che ha saputo valorizzarlo. Ne nasce un racconto sincero, profondo, mai banale, che parla di sport ma soprattutto di persone, di cambiamenti e del coraggio necessario per accoglierli.
Una stagione difficile, quest’ultima. Che bilancio tracci di quest’anno?
“Bella domanda. Direi un bilancio agrodolce. Dal punto di vista sportivo non è stata la stagione che avevo immaginato, né quella che avevo preparato. Però, guardando il quadro generale, ho avuto la possibilità – che non è scontata – di scegliere io quando smettere. E questa è una grande fortuna. Sicuramente non riuscire a partecipare al Giro è stato il momento che ha segnato maggiormente la stagione: era una corsa su cui avevo riposto aspettative e tanta fiducia“.
E della tua carriera?
“Quest’anno mi sono ritrovato spesso a ripensare a tutto il mio percorso nel ciclismo, a tutte le gare, a tutte le stagioni vissute. È stato come fare un viaggio nella memoria. Il bilancio è senza dubbio positivo: ho rispolverato ricordi che col tempo si erano un po’ affievoliti e oggi, alla fine di questi 15 anni, mi sento ancora più orgoglioso di ciò che ho fatto”.
Come hai vissuto e stai vivendo questi primi mesi da ex?
“Sono mesi strani, soprattutto all’inizio. Il distacco dalle corse è stato particolare. Pian piano, però, la mia routine ha iniziato a cambiare. Sono andato in ritiro con la squadra senza mettere nemmeno un completino da bici in valigia, partecipando a meeting che prima vedevo solo dall’esterno. Mi sono ritrovato sulle strade della Spagna in macchina, non più in bici: una sensazione davvero strana. Con il nuovo ruolo da direttore sportivo lo sarà ancora di più, ma sono molto emozionato per quello che verrà. È una nuova avventura che ho davvero voglia di vivere fino in fondo”.
Com’è cambiato il ciclismo negli ultimi anni rispetto a quando sei passato tu professionista?
“È cambiato tantissimo, soprattutto nel periodo post-Covid. Oggi il ciclismo è uno sport ancora più esigente, dove il fisico e la performance sono diventati centrali in maniera quasi assoluta. Probabilmente, avere una certa età oggi non aiuta, ed è anche uno dei motivi per cui ho deciso di appendere la bici al chiodo. Ho dovuto fare i conti con questo nuovo ciclismo, che mi ha portato a chiudere la carriera un po’ prima di quanto avessi immaginato. È uno sport molto più complesso rispetto a dieci anni fa”.
Il ricordo più bello?
“È difficile sceglierne uno solo. Le prime immagini che mi vengono in mente sono l’aver indossato la Maglia Rosa al Giro d’Italia 2021, i miei primi anni di carriera con Gianni Savio, fondamentali per la mia crescita, e il periodo in BMC, che mi ha formato completamente come corridore. Dal punto di vista sportivo ho vinto sette gare e, per me, sono tutte speciali allo stesso modo. Poi c’è l’ultima corsa, la Veneto Classic: una giornata davvero unica. Ho sentito un affetto enorme, è stata una chiusura da pelle d’oca, non solo per me, ma per tutti. È una gara che porterò sempre nel cuore, così come gli ultimi tre anni alla Jayco AlUla, una squadra che ha saputo valorizzarmi davvero”.
Il momento più difficile invece?
“Ce ne sono stati diversi. Sicuramente le due cadute più pesanti: quella al Giro 2021, subito dopo aver indossato la Maglia Rosa, e quella al Tour de France 2019. Sono stati momenti che hanno segnato profondamente la mia carriera, perché c’è stato un “prima” e un “dopo” dentro di me. Anche gli anni alla Israel non sono stati semplici”.
Ti saresti aspettato di più dalla tua carriera?
“Forse sì. Da giovane mi immaginavo di correre un po’ più a lungo, ma come dicevo il ciclismo è cambiato molto e ho dovuto accettare il fatto che fosse arrivato il momento giusto per smettere”.
Quando l’hai capito?
“Ho iniziato a pensarci seriamente nella seconda parte della stagione 2024. Durante l’inverno, confrontandomi anche con mia moglie Anna, mi sono reso conto che il 2025 sarebbe dovuto essere l’ultimo anno. Avevo iniziato a immaginarmi senza più una carriera da corridore. Quando senti che c’è bisogno di un cambiamento, la cosa più utile è accettarlo e andarci incontro”.
Qual è la sensazione più bella che si prova quando si è atleti?
“Essere in forma. Me ne sto rendendo conto solo adesso. Essere atleta significa anche avere la consapevolezza di essere riuscito a trasformare una passione nel tuo lavoro. Io ho fatto il corridore perché mi piaceva stare in bici, vivere questa vita. Spero di ritrovare la stessa sensazione anche da direttore sportivo: fare ciò che mi piace davvero”.
Cosa ti ha insegnato il ciclismo?
“Che le cose, nella maggior parte dei casi, non vanno come le avevi pianificate. I momenti difficili superano quelli di successo.
La cosa più grande che mi porto dietro è la resilienza: puoi programmare tutto, immaginare ogni dettaglio, ma la vera arma segreta è saper ripartire”.
Nel ciclismo si parla sempre più spesso di burnout, perché?
“Perché è diventato uno sport molto più complesso, con tante variabili da gestire. C’è più fretta nel raggiungere gli obiettivi e si è persa, in parte, la capacità di mantenere un vero rapporto umano. Spesso si guarda l’atleta solo dal punto di vista della performance, dimenticandosi che prima di tutto è una persona”.
Potessi tornare indietro, cambieresti qualcosa nella tua carriera?
“È quasi inevitabile dirlo, quindi sì. Ci sono state scelte che oggi farei in modo diverso. Ma fanno parte del percorso di ognuno di noi, e l’importante è riuscire a trarne un insegnamento”.
In particolare?
“Alcune stagioni le imposterei diversamente, soprattutto nella scelta delle corse. Gestire tanti anni di carriera non è semplice e a volte manca il coraggio di cambiare, restando fossilizzati su un certo approccio. Probabilmente avrei osato di più nella preparazione, soprattutto all’inizio della mia carriera”.
Come vedi il futuro del ciclismo italiano?
“Sulla carta abbiamo tutto per far crescere i giovani e portarli al professionismo. Ma rischiamo di perdere qualcosa se non facciamo un ragionamento più profondo alla base della piramide. Nelle categorie giovanili c’è sempre meno spazio per chi non è subito un campione, e questo è pericoloso. Il vero obiettivo non è creare il nuovo Pogacar, ma formare atleti e persone.
In un sistema così, è difficile trovare un nuovo De Marchi: non ho avuto un’esplosione immediata, ma un percorso graduale. E quando è arrivato il momento, mi sono fatto trovare pronto”.
Quindi vedi carriere sempre più brevi?
“Purtroppo sì. Se si continua su questa strada, vedremo carriere che difficilmente andranno oltre i dieci anni”.