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Rafael Nadal: “Il serbatoio, ormai, era vuoto. Con la giusta passione tutto è meno complicato”

Federico Rossini

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Nadal / LaPresse

Una lunghissima intervista è stata rilasciata da Rafael Nadal a Jorge Valdano, all’interno del programma Universo Valdano in onda su Movistar+, che in terra spagnola ha ormai in mano le chiavi di una buona fetta del tennis. Dall’accademia al suo rapporto con il tennis fino ai Big 3, tanti i tempi interessanti toccati dal 14 volte vincitore del Roland Garros.

L’inizio è dedicato proprio all’attualità: “Ho giocato per 45 minuti con Alexandra Eala, me l’hanno chiesto e l’ho fatto volentieri. Se non devo correre, bene. Resto coinvolto nell’accademia, vedo quello che mi piace. Non seguo il tennis giorno per giorno come prima. Adesso vedo partite o momenti che mi piace vedere. Ho guadagnato tranquillità, sentendo che non c’è più tutta quella responsabilità giornaliera di dover rendere sempre. E alle volte in condizioni non adeguate. Questo, a livello umano, personale, ti logora, e non sei più felice come dovrebbe esserlo uno come me. Il peggio è che, alla fine, si è chiusa una tappa che è stata eccezionalmente buona per me, emozionante. Se n’è andata una cosa che mi ha appassionato davvero, che è il competere al livello più alto. Quell’adrenalina. Sono cose che restano qui per sempre“.

Sul ritiro: “Ho provato il dovuto rispetto verso il cambiamento. In tutti i cambi della vita, come minimo, devi generare un po’ di rispetto per come vai a reagire a una nuova vita, diversa da quella di prima e a cui ti sei abituato non solo dai 20 anni di carriera, ma da quando ne avevo 10 Lo sport e il tennis sono ciò a cui mi sono dedicato pienamente. Ero preparato, ho selezionato le mie opzioni fino alla fine. Averle sfruttate fino all’ultimo che avevo per continuare a competere al livello al quale volevo essere mi ha dato convinzione di smettere in pace e convinto che fosse la decisione giusta perché non c’era altro. Il serbatoio, ormai, era vuoto.

Prima dell’addio: “Non ho nessun brutto ricordo di quei momenti. C’è gente che, come logico, pensava che avrei dovuto farlo prima, che la fine fosse senza senso. Per me lo aveva: agire in conseguenza di ciò che si è. Ho agito così. Ho tentato di sfruttare le mie chance finché non ne ho avute più. Mi piaceva quello che facevo. No mi sono ritirato perché stanco di quello che facevo o privo di motivazioni, ma perché il mio corpo non ce la faceva più. Ero ancora felice di fare quello che facevo. Dopo l’operazione mi hanno detto che avrei potuto recuperare totalmente, avrei dovuto darmi un po’ di tempo per saperlo. A un certo punto mi sono reso conto che potevo competere, ma non al livello necessario per competere. Ho portato la mia carriera al limite, più lontano di quanto fosse possibile“.

Il tema della motivazione è quello principale, e lo tocca in vari modi: “Si può avere il più grande talento al mondo, ma bisogna avere la capacità di lavorare, di avere disciplina e concentrazione nel tennis. Nel mio sport il talento è quello che ti fa dare un extra, ma una parte molto importante dev’essere il lavoro. Con passione e determinazione adeguata, tutto è un po’ meno complicato. Se non lo è, è molto difficile affrontare tutte quelle difficoltà che ti presenta la vita. I sacrifici sono quelli che si fanno quando uno fa cose che non gli piace fare. In questo senso non ho fatto grandi sacrifici. Ho fatto grandi sforzi, ma pochi sacrifici. Mi sono goduto quello che ho fatto. Non sento di aver perso praticamente nulla in questa vita, una vita più o meno equilibrata, senza vere ossessioni. Sento di aver fatto tutto quello che un adolescente può fare per non sentirsi privo di una parte dell’infanzia. Ho avuto tempo per tutto“.

Una pausa per ricordare l’inizio della parabola alta della carriera: “Sì, è vero che il mio successo mediatico è arrivato con la Davis del 2004, quando l’abbiamo vinta a Siviglia. Si può avere successo a livello mondiale o locale. La mia evoluzione è sempre stata legata ad averlo in età diverse. Quando è arrivato a livello pro, ero pronto ad affrontarlo. Tutto nuovo, molto intenso, ma mai ho perso di vista chi ero come persona“.

Ancora sulla motivazione a fare le cose: “Devo tantissimo a mio zio, che mi ha reso una persona determinata. Mi obbligava ad avere intensità, disciplina e attenzione in ogni allenamento. Se lo alleni da piccolo, è facile evolvere nella maniera adeguata. Mi sono sempre fatto aiutare da tutti quelli che mi circondavano. Sapevo accettare la sfida di voler raggiungere i miei obiettivi e di darmi reali chance di lottare per quelli. Ho sempre avuto determinazione per continuare a migliorare e per continuare a mantenermi al più alto livello. Il più autocritico sono sempre stato io, il che ha posto il livello di autoesigenza ancora più in alto. Ci sono state occasioni in cui la mia carriera si è focalizzata sul mio essere un lottatore, perché avevo una grande capacità di concentrazione. Per me è un complimento: puoi avere un gran fisico e una gran capacità di lavorare, ma se la motivazione non va dove deve… c’è una qualità tennistica che serve per essere al massimo livello“.

Poi c’è anche la questione di cosa accadeva quando le partite non andavano per il verso giusto: “La gente pensa che io continuassi a crederci pur perdendo, ma non era così. Quello che non facevo era lasciarmi andare, arrendermi. Sapevo di star perdendo e pensavo sarebbe finita, ma nulla mi impediva di provarci. Cercavo sempre di trovare soluzioni. Questo si ottiene comprendendo cosa sia lo sport, che è cercare di dare del tuo meglio anche se sai che perderai. Quello che mi ha più ossessionato nella carriera, o quel che mi ha sempre infastidito e non sopportavo, era che, una volta giocato un torneo, tornavo a casa sentendo di non aver fatto tutto ciò che avevo tra le mani per far sì che le cose andassero bene. Tentavo di cercare soluzioni più che pensare al risultato. Pensavo a cosa fare per cambiare la dinamica della situazione. Molte volte, quando stai perdendo, puoi provare cose, e quelle che funzionano valgono sempre la pena. Delle volte in quei momenti di sforzo mentale ottieni piccole vittorie che ti cambiano la vita nel corso di un anno“.

Come si vive il tennis cammin facendo? “Quando ero più giovane vivevo tutto in una maniera più intensa. Più andavo avanti e più le cose si calmano. Il buono della nostra epoca è che abbiamo finito le nostre carriere e ora possiamo andare a cena assieme senza problemi. Questo è qualcosa di cui ci si può sentire orgogliosi. Abbiamo lottato per i trofei più importanti, ma non l’abbiamo portato all’estremo. La rivalità è rimasta in campo e le relazioni personali sono sempre state di rispetto, ammirazione e anche una certa amicizia tra rivali. Mi sento felice di aver potuto far parte di questa storia. Senza togliere alcun merito a Sinner e Alcaraz, che vogliono fare le cose per bene, credo che noi (Big 3) abbiamo contribuito a far sì che le nuove generazioni potessero pensare di poter essere competitori feroci senza odiarsi come rivali. Si può avere una relazione non di amicizia, ma ottima. Lasciamo questa bella eredità“.

E sul Roland Garros: “Quello che ho vissuto lì è difficile da comparare. Quella storia si è costruita dal 2005 fino a quest’anno con l’addio. Senza pensare al futuro, è diventata la storia del record più importante che ho. Quando ci penso, forse sono stato migliore di altri su quella superficie, ma devono capitare tante cose perché ciò accada, ed è successo“.

Inevitabile tornare anche sui suoi storici rituali in campo, rimasti molto famosi: “Non sono praticamente per nulla superstizioso. Contrariamente a quel che si può pensare, fuori dal tennis non ho routine o rituali. Quello che era sul campo restava lì, nella competizione. Mi serviva. Vorrei poter raggiungere quel livello di concentrazione senza le routine. Non erano così marcate a inizio carriera. Il tennis ti chiede molto e ti consuma dentro. Ogni giorno vai in campo sapendo che il tempo della notte e puoi essere a casa. Avevo bisogno di routine con cui sentirmi comodo, sicuro, con cui mi aiutavo a non perdere il focus su quello che stavo facendo, a isolarmi da tutto il resto. Ho tentato di diminuirle, perché quando mi vedevo in tv non mi piaceva quel che vedevo, ma non mi stavano male. Mi davano la sensazione di un focus al 100% su quel che facevo. Mi manteneva centrato sul momento. Copiare è la cosa più facile. Uno guarda le persone che fanno meglio di te quello che fai, tenta di fare le cose che di loro piacciono. Tennisticamente è lo stesso. Chiaro, mi fissavo sulle cose che avevano i rivali per migliorare. Quando mi allenavo, giorno per giorno, non ci pensavo“.

L’ultima riflessione è sull’evoluzione del tennis: “Noi venivamo da Pete Sampras, che aveva 14 tornei del Grande Slam in bacheca. Ed è umano che qualcuno della nostra generazione, arrivato a 14, poteva aver pensato di essere arrivato al massimo. Noi, essendo tre, e non due, non avevamo margine per rilassarci. L’esigenza era massima. Non abbiamo mai smesso di esigere l’uno dall’altro. Non c’era margine per perdere tornei. Questa è stata la grandezza della nostra epoca. Eravamo sempre nelle fasi finali nei tornei più importanti. Non credo che uno solo sarebbe stato capace di farlo. Non credo cambierà molto. Il mondo cambia, il modo di giocare è un po’ diverso. Si colpisce più forte, si serve più forte. Continuo a credere nell’intuizione, nel non giocare come un robot cercando di indovinare secondo le statistiche. Di questo ho parlato con Federer, a lui non piaceva avere troppe informazioni“.

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